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Al Campo di Mae La
Di George Ritinsky.
Due giorni trascorsi in mezzo ai profughi, ai migranti più poveri, al confine tra Thailandia e Myanmar. Un’esperienza che segna e pone domande inquietanti.
Dopo ogni inchiesta, un lavoro da fare per noi reporter è quello di mettere in ordine foto, idee e quanto si è scoperto dopo l’ennesima fatica. La regola sarebbe di restare distaccati da tutto quanto visto, e questo vale per tutti. Anche per me. In realtà mi è impossiible. Due giorni sulle montagne tra la Thailandia e il Myanmar, dove ho potuto visitare anche il famoso campo di Mae La dopo qualche anno che vi mancavo, è un’esperienza forte che non lascia indifferenti.
Mae La è uno degli 8 campi ancora attivi, tra i più grandi, nel Nord del Paese: ancora oggi vi sono circa 45 mila persone “rinchiuse”. Negli ultimi 10 anni il mio personale impegno per profughi e migranti è stato intenso, ma non riesco ad abituarmi al dolore, soprattutto quello dei bambini, che non riescono più a sorridere. La malattia più frequente nei campi è in effetti la depressione, che colpisce tutti, grandi e piccoli. Dopo la fuga dal Myanmar, dopo la fame sofferta nella foresta, spesso con la febbre dengue e la malaria, questi bimbi difficilmente sorridono, anche se ora sono al sicuro. La vita nel campo è dura. E non mi abituo a quello sguardo che m’interroga, ogni volta, come un ‘’perché’’ infinito. Ogni volta che pesto quelle strade polverose che accolgono i profughi, che guardo quelle capanne, l’unica cosa che riesco a fare è stare in silenzio, direi in raccogliemento. Dentro vi vivono persone, non cose: esseri umani, le cui condizioni di vita, di conforto sono di uno standard a noi incomprensibile e inaccettabile.
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