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Aurelio Molé: l’importanza del genfest del 1990 (e di ogni Genfest)

 
20 Agosto 2024   |   Internazionale, Genfest,
 
Derechos de autor Todos los derechos reservados por Genfest 2012 - Official
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Abbiamo ancora nel cuore il recente Genfest di Aparecida, in Brasile, un’esperienza fantastica che abbiamo cercato di raccontare ai nostri lettori con diversi articoli, e continueremo a farlo, con notizie e testimonianze anche da parte di chi, della redazione di Unitedworldproject.org, ha vissuto l’evento in prima persona. Parallelamente, però, stiamo raccogliendo le voci di chi ha vissuto altri Genfest nel corso degli anni: quella di Valerio gentile che ci ha offerto i suoi ricordi del primo Genfest in assoluto, quello del 1973. Ad Aurelio Molè, invece, giornalista, autore Tv e counsellor professionista, abbiamo chiesto di parlarci di quello del 1990, il primo Genfest dopo la caduta del muro di Berlino. Lui ci ha risposto con riflessioni preziose, anche in generale sul valore dei Gesfest.

I Genfest hanno sempre avuto una forte carica profetica, la capacità di mostrare la normalità del bene, contro la consuetudine al male sempre presente nel mondo e predominante nell’informazione dei media.

Ben compreso quello del 1990..

Il Genfest del 1990 con 20 mila giovani presenti al Palaeur di Roma provenienti dai cinque Continenti e da 76 nazioni, con altri 16 Paesi collegati via telefono, e altri ancora via satellite, era già un’esperienza di fratellanza, di un mondo più unito, di ragazze e ragazzi che già operavano per costruire un pianeta diverso. La novità storica contingente dei tempi era la caduta del Muro di Berlino e dei regimi totalitari dei Paesi dell’Est. Qualcosa di impensabile, tanto è avvenuto repentinamente. Una frattura risanata dell’Europa.

Cosa ha significato per te?

Tutta la mia generazione, allora avevo 27 anni, è nata, vissuta, cresciuta in un clima di guerra fredda, riarmo, timori di una terza guerra mondiale. Non avevo mai incontrato giovani dei Paesi dell’Est e anche la successiva Giornata mondiale della Gioventù del 1991 a Częstochowa, in Polonia, fu, insieme al Gesfest l’occasione per vedere, parlare, salutare per la prima volta giovani della Lituania, Polonia, Cecoslovacchia, della Ex Jugoslavia, Romania, ecc… Era come se fossero apparsi da un altro pianeta. Apparivano uguali e diversi da noi.

In che senso?

Uguali perché volevano vivere i nostri stessi ideali. Diversi perché non erano

contaminati dal consumismo e dall’individualismo occidentale. Le persone conservavano ancora una purezza e una innocenza che in Occidente si era persa. Si vedeva di più la bellezza della loro anima allo stato originale. Il mondo unito appariva non più solo un’aspirazione, e il titolo del Genfest del 1990: “Ideale che si fa storia”, diventava concreto, reale. Una porzione di mondo unito già esisteva, era visibile e contagioso. E c’era una consonanza e un endorsement, un sostegno molto autorevole in Giovanni Paolo II che disse il mondo unito «è la grande attesa degli uomini d’oggi, la speranza e, nello stesso tempo, la grande sfida del futuro» perché «è la via della pace».

Parole importanti…

Parole quanto mai attuali in un mondo che vive una terza guerra mondiale a pezzi. La via del dialogo, della diplomazia, dell’ascolto, della comprensione è l’unica via di sopravvivenza del pianeta.

Quanto risalto fu dato a quel Genfest proprio in relazione alla caduta del Muro di Berlino? Quale impatto ebbe questo evento storico su quei giorni?

L’impatto sui media fu significativo con articoli, dirette, interviste e portò sicuramente una ventata di aria fresca, di gioia e di speranza. L’impatto reale non è misurabile perché, poi, cosa abbia prodotto nella vita di tutti quei giovani è difficile da quantificare. Di certo fu come aver fatto una grande scoperta scientifica.

Anche qui ti chiedo di approfondire….

Quando Alexandre Fleming scoprì nel 1928 la penicillina dando via alla nascita degli antibiotici l’importante era saper riprodurre il farmaco. L’esperienza di laboratorio di un mondo più unito ha portato alla nascita di tante iniziative, associazioni, impegno sul territorio che sono in vita ancora oggi.

Dentro e fuori al Movimento dei Focolari?

Non importa se appartengano in modo diretto ai Focolari, ma conservano quello spirito di apertura, di inclusività, di amore concreto che è stato assimilato in questo Genfest. Nella mia esperienza ha anche significato aver aperto l’anno scorso uno sportello di counselling uno spazio di ascolto attivo e di sostegno rivolto a tutti. Una relazione di aiuto per superare momenti di difficoltà sia personali, sia nella coppia. Insomma, non è mai troppo tardi per aprirsi al proprio territorio, capire i bisogni delle persone e cercare di fare quel che si può. Il processo di un mondo più unito parte anche dall’interno delle persone, dal come prendersi cura di sé.

Ho letto questa frase da una testimonianza di quel Genfest: “A tutti venne rivolto un mandato: riportare nel mondo l’amore. «Non è sufficiente l’amicizia o la benevolenza – ci disse Chiara Lubich – non bastano la filantropia, la solidarietà o la non violenza. Occorre trasformarsi da uomini concentrati sui propri interessi a piccoli eroi quotidiani al servizio dei fratelli» Ti va di commentare questa frase?

Il nostro modello di eroe, spesso, è quello hollywoodiano. Un protagonista che da solo sa superare degli ostacoli e una crisi per raggiungere degli obiettivi drammaturgici, consci e inconsci. Al Genfest s’impara che non solo l’amore deve essere concreto, con i muscoli, personale, ma può essere fatto insieme, nella logica del noi, della fraternità, di un mito dell’eroe collettivo. In un’epoca di individualismo e frammentazione e di solitudine digitale, bastano due persone che si riuniscono, nel nome di Gesù.

Oltre le differenze….

Non ha importanza l’età, la cultura, la provenienza per poter fare qualcosa di utile per gli altri. Non è la grande impresa che fa la differenza, ma ricostruire il tessuto sociale, le comunità, dal basso, dalla vita ordinaria, nelle proprie relazioni, nel lavoro, nel quartiere. La direzione è stata indicata da Chiara Lubich in “Una città non basta” in cui invita a prendere le misure della città per cercare i poveri, gli abbandonati, gli orfani, i carcerati per non lasciare nessuno solo e dare sempre «una parola, un sorriso, il vostro tempo, i vostri beni» e condividere ogni cosa «momenti di gioia e di vittoria, di dolore e di fallimento, perché la luce non si spenga». «Ma “una città non basta”: sì, con Dio, una città è troppo poco. Egli è colui che ha fatto le stelle, che guida i destini dei secoli e con Lui si può mirare più lontano, alla patria di tutti, al mondo. Ogni nostro respiro sia per questo, per questo ogni nostro gesto, per questo il riposo e il cammino. Alla fine, facciamo in modo di non doverci pentire di aver amato troppo poco»


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