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#Daretocare in America Latina
Sabato 8 agosto, in diretta streaming dall’America Latina, 17:00 (UTC-3), il primo appuntamento con “#Dare to care in my City”, una diretta streaming per viaggiare virtualmente attraverso un continente, condividere storie, porre domande, ispirare ed essere ispirati da persone e comunità che hanno messo al centro del loro agire il paradigma della cura. Cosa vuol dire per questo immenso e molteplice continente “osare prendersi cura”? Entriamo in punta di piedi in questo ricco mondo, parlando con Clara Mariel Badilla, pedagogista del Costa Rica e con Virginia Osorio, sociologa uruguaiana.
Se c’è una cosa utile portata dall’isolamento a cui siamo costretti per il Coronavirus, è l’allenamento ad usare certe tecnologie per le videochiamate on-line, che permettono di avvicinare persone e mondi anche molto lontani da noi. Dal punto di vista di United World Project, strumenti eccezionali per favorire l’unità, la prossimità, l’incontro e la conoscenza reciproca, superando anche distanze e fusi orari. Con Clara e Virginia non ci conosciamo, non ci siamo mai viste in faccia ma ci stiamo telefonando. La prima è costaricense ma vive a Città del Messico, l’altra è uruguaiana e vive a Tucumán, nel nord ovest argentino. Vorremmo che ci aiutassero ad entrare in punta dei piedi nella complessa e varia cultura latino americana, guardandola dal punto di vista di questo paradigma che ci sta tanto a cuore: la cura.
Virginia, secondo te, tu che sei una sociologa, che cosa può offrire la cultura, la storia e l’esperienza latino americana all’impegno proposto dal Pathway di quest’anno, “#Daretocare”, osare prendersi cura?
«La prima cosa che mi viene in mente è la saggezza dei nostri popoli nativi nella cura della vita, del Creato, di una certa armonia dei rapporti. E poi, una nuova visione di sviluppo, una nuova visione sociale che parte dalla periferia. Anche in rapporto con la metodologia proposta dalla Chiesa latino americana, della dottrina sociale: ver, giudicare e agire. Cioè, vedere, giudicare e agire: guardare la realtà; giudicare, nel senso di chiedere la saggezza per guardare e capire oltre a quello che si vede; e poi anche l’agire. Ma l’agire deve essere preceduto da questi due passi. Sono queste le cose che mi vengono subito in mente: questa saggezza dei rapporti, questa visione sociale e anche questa forza che può venire dalla periferia. Poi, un’altra cosa, quando le persone pensano all’America latina ci vedono come un continente giovane dove ancora c’è una certa speranza…».
Clara Mariel, secondo te, assumendo il punto di vista della cura, cosa può imparare il resto del mondo dalla cultura e dalla società latino americana?
«Io concordo con quello che dice Virginia sui rapporti. Qui, c’è una naturale tendenza alla comunità, a costruire la famiglia, però una famiglia che va oltre le mura di casa: è allargata. È commovente vedere come i nostri popoli, pur nelle loro differenze, siano naturalmente solidali. Qui, c’è tanta gente che si toglie anche quello che serve per la sopravvivenza. Io vengo dal Centro America e noi non abbiamo le quattro stagioni. Dicono che siamo i paesi dell’eterna primavera. Per questo noi non siamo abituati al risparmio, perché la natura è generosa, ci dona quello che serve oggi. Anche la maggior parte della gente è così, non pensa se domani non avrà da mangiare… no, oggi vieni, vieni a casa, ti accolgo e ti dò quello che ho. Poi, come popolo siano molto legati al palpito della natura, e c’è un insegnamento che viene dalla natura stessa sul che cosa vuol dire “curare” e “prendersi cura”. E questo legame porta a vivere così, pensando a curare chi ho accanto e, se l’altro sta bene, sto bene anche io. Certo, non possiamo negare che con una storia ancora contemporanea di esclusione, ci sono anche le ferite della diffidenza».
Spiegami cosa intendi con questa “diffidenza”…
«Ti racconto una cosa che ho imparato. Io ho vissuto un po’ in Venezuela, vicino ad una città dove ci sono tantissime persone di una comunità indigena. Loro mi spiegavano che la diffidenza per loro è un modo di sopravvivere, non è qualcosa di negativo… Perché per tanti anni c’è stato qualcuno che ti toglieva qualcosa, che fosse lo stato o altro. Tu prima devi misurare il rapporto che l’altro vuole stabilire per aprirti. Quindi, i nostri popoli hanno bisogno, tanti non tutti, di un tempo per riflettere, per capire. Ma quando ti aprono la loro casa e il loro cuore, diventi parte della famiglia! Allora, in questo senso questa parola “diffidenza” vuol dire capire come ti stai avvicinando, con quali intenzioni».
Virginia, secondo te, cosa può imparare il resto del mondo dalla cultura e dalla società latino americana, nell’ambito della cittadinanza attiva e la politica per l’unità?
«”Dare to care”, la cura nella politica, è una delle sfide più grandi che abbiamo noi come continente. La nostra protezione sociale è inesistente, non c’è protezione del lavoro, abbiamo tanto lavoro nero, l’informalità economica, la corruzione, e la diseguaglianza è una cosa strutturale… Con tutte queste sono sfide, è difficile che uno si metta in gioco per la partecipazione civile. Nell’America Latina la partecipazione non è stimolata, noi non abbiamo un parlamento latino americano, la visione politica latino americana è ideologizzata. Tuttavia, in questo continente sono nate tante reti sociali, economie solidali, i movimenti sociali che sono, come dice il Papa: “los verdaderos poetas sociales, que desde las periferias olvidadas crean soluciones dignas para los problemas más acuciantes de los excluidos” (it: “i veri poeti sociali, che dalle periferie dimenticate creano soluzioni dignitose ai problemi più urgenti degli esclusi”.) Anche li c’è una forza che va avanti, una intelligenza comunitaria che può essere di ispirazione per le politiche pubbliche. Questa capacità di mettersi in rete per prendersi cura degli altri è qualcosa innato da queste terre. In particolare, là dove è ancora viva la cultura dei popoli originari…
In che senso, Virginia?
Per esempio, poco tempo fa si è riconosciuto per la prima volta la proprietà comunitaria della terra. La Corte interamericana dei diritti umani (IACHR) ha emesso una sentenza sul caso delle comunità indigene membri dell’associazione Lhaka Honhat (la nostra terra) contro l’Argentina. La corte ha dato ragione alle affermazioni delle comunità indigene membri dell’Associazione, e ha dichiarato lo Stato argentino responsabile di aver violato i loro diritti fondamentali, ordinando di adottare varie misure di riparazione, nonché di garantire sicurezza legale alla proprietà collettiva del loro territorio. E questo è un passo molto importante, da qui potrebbero nascere nuove categorie politiche».
Clara Mariel, c’è dell’altro secondo te?
«Io penso che un altro elemento importante sia la famiglia. È un vincolo grande come la radice di un albero, che si allarga sempre di più. C’è tanto il senso del gruppo, del clan, dell’appartenenza ad una comunità. Anche i valori femminili sono molto forti! Anche se non si può nascondere il forte maschilismo, la donna è il perno della famiglia e di tante realtà, per la sua capacità di cura e per la sua capacità di amare. In tutta l’America Latina è una forza che quando si libererà dal maschilismo, potrà dare una sensibilità mariana alla politica, con tutto il potenziale sociale del Magnificat».
Incuriositi? Io sì. Allora, non perdetevi l’appuntamento con #Daretocare in My City – America Latina, sabato 8 agosto, ore 17:00 (UTC-3) in diretta streaming su Zoom e lo Youtube di United World Project.