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Domande…
In questi tempi difficili, è impossibile non farsi domande. Costantemente, tutto il giorno.
La giornata inizia con: siete riusciti a dormire? Cos’è successo stanotte? Poi sentiamo le ultime notizie, uno strazio costante scandito dal numero di feriti e di vittime, dal numero di villaggi, boschi, alberi di ulivo, mucche, capre, pecore…
Poi ti metti in piedi, inizi la giornata, trasferisci l’alimentazione domestica dal generatore di quartiere al tuo generatore solare come fai ormai da tre anni, cioè dall’ultima crisi, quella dei combustibili. Mentre stai ancora bevendo il caffè, iniziano le domande dei tuoi figli: le scuole sono aperte oggi? Possiamo uscire? No, oggi no. E la domanda che ti fa più male: perché?
È complicato. La nostra zona è prevalentemente cristiana, ma ospita centinaia di rifugiati siriani musulmani (un’altra crisi che dura da oltre dieci anni) ed è considerata piuttosto sicura, anche se non si può mai sapere quali siano gli obiettivi della Macchina della Guerra.
Quarantacinque chilometri sono una distanza molto breve: tra i quartieri cristiani di Beirut e il primo villaggio coinvolto a sud c’è meno di un’ora di strada! La periferia sud di Beirut, invece, è a meno di un quarto d’ora da qui. Le zone meridionali e orientali del Libano, insieme alla Striscia di Gaza e ad altri territori della Terra Santa, sono da mesi bersaglio di bombardamenti continui con missili di ogni genere: un ottimo banco di prova per le più recenti e sofisticate tecnologie militari al mondo, dotate perfino dell’intelligenza artificiale.
Ecco di nuovo la domanda: mamma, ho lezione di tennis oggi? Pare di no.
Qui è così: la vita va avanti “normalmente” finché, di colpo, tutto cambia. Cos’è successo? La macchina della guerra ha messo in campo nuove armi, l’intensità degli attacchi è diventata esponenziale, le vittime sono centinaia e poi migliaia.
La vita si ferma.
Dov’è tuo fratello? A che ora atterra papà? Chiamalo e chiedigli dov’è. Hai telefonato ai nonni? Rispondi allo zio che chiama dall’estero, è preoccupatissimo. Digli cosa sta succedendo. Quel tuo amico vive nel villaggio che è stato colpito, vero? Dov’è tua sorella?
…
Calmati, mamma. Siamo tutti qui. Stiamo bene.
Non è vero, non stiamo bene. Siamo tutti soggiogati da un oscuro paradosso che ci stordisce: l’accettazione e il ripetersi quotidiano di orrori perpetrati nei confronti di intere popolazioni normali (straordinarie, in realtà) e timorate di Dio. È un misto cupo di paura, rabbia, furia, sfinimento, shock, confusione, disgusto, incomprensione e profonda tristezza; lo sentiamo fin nella punta delle dita, finché non ci addormentiamo la sera.
Che succederà ora, mamma? Le domande iniziano ad affollarsi dentro di me: durerà molto stavolta? Devo fare di nuovo scorta di cibo?
Dobbiamo fare le valigie e andarcene? Dalla regione o dal Paese? E la casa? Che ne sarà della nostra casa? E la scuola? Abbiamo appena comprato i libri. Il piccolo non ha neanche iniziato la scuola! È tutto finito? E i nostri genitori? E gli amici? Come faremo con il lavoro? Con i nostri impiegati?
È come essere completamente paralizzati nell’ignoto. La mente, pietrificata, non ha risposte.
Mamma, rispondi! Scusa, tesoro, non lo so. Vedremo. Dio ci guiderà. Ne sono certa. Mi tornano in mente le implorazioni a Dio della nostra gente durante le tragedie del passato e del presente: ya Allah! O Dio! Ya Aadra! O Vergine Maria! Ya Mar Charbel! O San Charbel! Non c’è altro dio all’infuori di Dio!
È questa la nostra forza? La nostra fede?
Non sono solo parole. La fede è ciò che ci dà la forza di rimanere in piedi anche quando non abbiamo più niente. Ci dà la certezza che Dio, e non il Male, ha l’ultima parola, e che la giustizia di Dio avrà la meglio, nella vita e nella morte.
I miei figli vanno a letto senza risposte e io mi chiedo: come abbiamo trascorso questa giornata insieme? Mentre aspettavamo in casa, abbiamo fatto i pancake, abbiamo giocato con il cane, naturalmente abbiamo litigato ma poi abbiamo fatto pace, abbiamo cucinato, abbiamo pianto, abbiamo riso, abbiamo giocato con la nonna… Ci siamo aiutati a vicenda a non rimanere paralizzati, in famiglia, in comunità.
Ci sono tante ingiustizie nel mondo di oggi. Ma come parlare di queste cose ai miei figli? Quali parole possono spiegare che, non lontano da noi, delle persone, delle famiglie, dei bellissimi bambini vengono brutalmente uccisi per “motivi legittimi”? Domani potrebbe toccare a noi. Cosa può legittimare questi orrori? Non ho parole. Mio figlio di sedici anni ha già capito che i diritti umani che studia a scuola non si applicano a tutti i popoli in modo uguale. Adesso guarda al suo futuro diversamente. Sarà più forte per questo?
E mentre con la mente e il cuore custodiamo costantemente le grida del nostro popolo, tendiamo le mani verso tutte le persone di buona volontà che desiderano lavorare per la pace: non solo la pace meditativa, interiore, ma anche la pace sociale che nasce dal costruire ponti tra i popoli, dall’accettazione dell’altro, dalla lotta alle ingiustizie e alla faziosità. La nostra unica speranza viene dalle comunità che hanno capito che la violenza e la guerra sono SEMPRE disumane e assurde, e che solo lavorando insieme è possibile trovare soluzioni durature per tutti i popoli.
Nel frattempo, continuiamo a porci domande senza risposta e andiamo avanti alla cieca verso un futuro ignoto con timorosa speranza ma ancorati alla nostra Forza e alla comunità.
M.N.A. dal Libano