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Empatia e paura, presente e natura umana: intervista al regista Cristian Mungiu | Parte 2

 
14 Luglio 2023   |   Romania, Film, Animali Selvatici
 
CRISTIAN_MUNGIU_photo_by_Song_Xiangyang

“R.M.N.” (“Animali selvatici”), il suo ultimo film, è ambientato in un piccolo paese della Transilvania, dove l’equilibrio della comunità locale (formata da etnie diverse) è messo in crisi dall’arrivo di alcuni lavoratori dello Sri-Lanka. Il film riflette sul presente e sulla natura umana, toccando in modo problematico i temi dell’altro, dell’incontro, della violenza e dell’amore, dell’accoglienza. Di tutto questo abbiamo dialogato con il regista Cristian Mungiu, già vincitore della Palma d’oro a Cannes (2007) con “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”, e della miglior regia, sempre a Cannes (2016), con “Un padre, una figlia”. La seconda parte dell’intervista (clicca qui per andare a leggere la prima parte):

Un altro personaggio fondamentale del film è Matthias, il protagonista Maschile di R.M.N. Mi sembra un uomo (almeno inizialmente) bloccato in una terra di mezzo: è sospeso tra l’uscita dalla sua terra (lo troviamo emigrato in Germania) e un ritorno a casa malinconico, dopo un episodio di razzismo subìto. E’ sospeso anche tra due donne: la moglie da cui è separato, e Csilla, con cui ha avuto una storia d’amore ma che ora lo rifiuta. Ha un padre anziano, che sta per andarsene, e un figlio da crescere, al quale insegna a cacciare e a difendersi dagli animali selvatici. Mi sembra, però, che lentamente anche Matthias, In modo non troppo differente da Csilla, prenda coscienza che la mentalità chiusa, selvatica, violenta che lo circonda, non porti da nessuna parte. E’ come se dentro la sua immobilità esista una silenziosa mobilità interiore. È così o mi sbaglio?

Per Matthias, il mondo cambia troppo in fretta, e ciò gli procura molta ansia, perché non riesce a capire per quale tipo di mondo deve preparare suo figlio. I valori che ha appreso dal padre sono superati, ma il suo bisogno di affetto è reale e concreto come quello di qualunque altro essere umano. Non è certo il tipico protagonista (come quelli del cinema convenzionale, in cui tutto appare chiaro e il protagonista si evolve nel corso del film): lui rimane dubbioso dall’inizio alla fine, ma, comunque, come hai osservato, qualcosa dentro di lui cambia. Per un verso, quando viene abbandonato dalle donne che ama, impara una lezione difficile: che anche chi non vuole essere coinvolto nella vita sociale e preferisce adeguarsi e pensare solo ai propri problemi ha una responsabilità, e che occorre sempre fare delle scelte, perché si può essere considerati colpevoli anche scegliendo di non agire.   La seconda cosa di cui si rende conto è che noi umani abbiamo una duplice natura: siamo in parte esseri capaci di empatia, generosità e tolleranza, e in parte animali che per la propria sopravvivenza ricorrono a istinti violenti, al sospetto e all’egoismo. Alla fine, Matthias si ritrova tra questi due mondi – l’oscurità della foresta e il calore della comunità – e capisce che deve fare una scelta; e qui è importante che tutti noi capiamo che, nella vita reale, dobbiamo fare la stessa scelta, altrimenti, in una situazione imprevista (come un incidente o una guerra), l’animale che è in noi prevarrà.

C’è un lungo piano sequenza, in R.M.N, in cui gli abitanti del villaggio si radunano per discutere della questione relativa all’assunzione dei lavoratori dello Sri Lanka nella fabbrica del pane. E’ presente anche Csilla, e vengono fuori frasi poco confortanti sull’integrazione. Parole e pensieri che purtroppo abbiamo sentito tante volte in giro. Il film non giudica, ma fotografa, radiografa, come dice il titolo R.M.N. Può essere interpretato come un film pessimista, ma anche come uno specchio attraverso il quale tutti possiamo vedere meglio la nostra la nostra sterile e pericolosa capacità di chiuderci e di chiudere le porte al prossimo fragile. Ecco però che l’arte torna a fornirci quel piccolo shock che mette in modo o alimenta il cambiamento, la crescita. Ti sembra un buon modo, questo, per leggere il tuo film?

Mi fa molto piacere che tu lo veda così. L’arte è uno specchio, ma spesso la gente non ama sentirsi messa a nudo da un film, e se la prende con lo specchio piuttosto che con se stessa. Credo che l’arte abbia valore nella misura in cui parla delle cose di cui la gente preferisce non parlare, ma che sono vere, anche se scomode.

Oggi nel mondo dell’arte c’è molto conformismo, anche nel cinema, e spesso il limite del politicamente corretto (che per altri versi ha buone intenzioni) è che raramente cambia i pensieri, ma solo le parole. Se vogliamo cambiare anche i pensieri, dobbiamo partire dall’ascolto dell’altro, da un ascolto vero, perché il dialogo può iniziare solo quando non si è convinti a priori di avere ragione e che l’altro abbia torto.

La scena dell’assemblea racconta anche i limiti della democrazia e la sua fine per come l’abbiamo conosciuta. Perché se non si investe innanzitutto nell’istruzione delle persone, le decisioni della maggioranza possono non essere affatto etiche. Per le persone che vivono in piccole comunità tradizionali è difficile identificare le “autorità” distanti e ignote che decidono per loro come debba cambiare il mondo, e non capiscono perché anche loro debbano adeguarsi e cambiare, nonostante la maggioranza preferisca vivere secondo le proprie tradizioni.

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Il tuo film, leggibile a più livelli, ci parla, attraverso i personaggi principali e il coro di protesta intorno a loro, del male e del bene di cui siamo fatti, della luce e del buio verso cui possiamo andare. Di cose belle e brutte che sono dentro di noi prima che fuori di noi. Cosa pensi di questa lettura?

Nei miei film cerco di preservare la complessità e l’ambiguità del mondo reale, senza semplificarlo o interpretarlo eccessivamente con troppe spiegazioni verbali. Sì, siamo fatti di impulsi e tratti contraddittori, siamo a volte razionali ma più spesso irrazionali, il nostro giudizio si basa più sulle emozioni e sulle circostanze che sulla logica, siamo egoisti più che generosi e non possiamo sfuggire alla nostra solitudine anche se aneliamo all’affetto. Il nostro subconscio ci avvolge come una foresta oscura in cui si annidano istinti animaleschi torbidi e indistinti.  Verso la fine del film, Matthias ha una rivelazione: la fonte del male che sente aleggiare nell’aria e che lo spinge a proteggere i suoi cari potrebbe non venire dal mondo esterno ma da lui stesso, perché l’animale più difficile da domare è quello che ognuno ha dentro di sé.

Tutto il film è pervaso dalla presenza degli orsi intorno al villaggio. Reali o metaforici che siano: sono animali selvatici rappresentanti, oltrechè se stessi, certi aspetti della natura umana. Matthias, alla fine del film, spara a un orso che sembra artificiale: una specie di maschera sotto la quale sembra nascondersi un uomo. Subito dopo averlo colpito, dalla penombra sembrano spuntarne molti altri. Può essere un’altra metafora del film? Può essere, quello del protagonista Matthias, il desiderio di lottare contro quella natura umana selvatica estranea all’empatia e all’amore?

Matthias prima spara a un orso, e per un attimo pensa di aver risolto il problema, qualche istante dopo, però, nell’oscurità sembrano apparire altre creature la cui natura è più vaga: sono animali, umani o incarnazioni delle sue stesse paure (come ha commentato qualcuno)? Ogni spettatore darà la propria risposta.

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