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Essere “ponte”: Andrea e il Genfest 2012!
Andrea Cardinali è stato uno dei presentatori di Let’s Bridge, l’edizione storica del Genfest 2012 per la prima volta fuori dall’Italia. Oggi insegna “scienze della felicità” ai ragazzi, ma si porta dietro quel bagaglio di vita e di fraternità, che una volta entrata nel cuore… non esce più.
Andrea Cardinali è un fiume in piena! 36 anni compiuti da poco, fresco sposo di Veronica, come ama dire lui, insegna ai ragazzi “Scienze della felicità” e a fine anno dà i voti per la materia di religione, ma è anche professore di filosofia, calciatore e scrittore. E in quel, non troppo lontano, 2012, fu uno dei presentatori di un’edizione del Genfest molto particolare che si tenne in Ungheria. Ricorda lui stesso, erano passati pochi anni dalla morte di Chiara Lubich, il Movimento dei Focolari che aveva promosso il Genfest stava cambiando e maturando, e per la prima volta dopo quarant’anni, questa manifestazione si teneva fuori dall’Italia. E lui, mollò gli allenamenti della sua squadra di calcio per inseguire il sogno di Budapest.
Quindi è vero? Mollasti tutto per Budapest?
«Beh era previsto che io mancassi perché avevo comunicato di avere questo impegno fino ai primi giorni di settembre 2012, ma mancare ai primi allenamenti della stagione è veramente un’eccezione: avevo provato ad allenarmi anche a Budapest, ma subito mi ero reso conto che non ce l’avrei fatta, i ritmi erano troppo intensi».
Facciamo un po’ di ordine: quando pensi al Genfest 2012 cosa ti viene in mente?
«Penso subito all’evento al quale ho partecipato più importante della mia vita, perché ha messo insieme tanti aspetti: il servizio agli altri, la messa in gioco dei talenti, la storia della mia famiglia, e se penso al mio presente anche il mio impegno di oggi. E poi tutta la gioia e la forza tra noi giovani che eravamo lì, con la nascita di amicizie che nel tempo sono rimaste».
Ti ricordi il momento in cui ti hanno detto che saresti stato uno dei presentatori?
«Io ricordo che ero uno dei “papabili”, perché avevo già presentato altri eventi culturali, e quindi ricordo che girava il mio nome. Poi ricevetti una telefonata che mi disse che ero stato scelto come presentatore italiano, ma con altre due persone che avrebbero parlato inglese e ungherese. Questo fatto all’inizio mi aveva un po’ disorientato, poi invece mi ha entusiasmato e dato forza per buttarmi in una nuova avventura che in quel momento era una sfida per tutti: il primo Genfest senza Chiara Lubich, fuori dall’Italia, in un Paese dove non si erano fatti prima grandi eventi. Un’edizione storica».
Come erano le vostre giornate tipo?
«Al mattino lavoravamo molto con Tamara Pastorelli, la nostra autrice, perché lei ci teneva tantissimo affinché i testi diventassero nostri, e non fossero letti o recitati, ma li possedessimo perché credevamo davvero a quelle parole. Poi nel pomeriggio c’era il lavoro sulla parte scenica insieme al regista, Max Fenaroli e al direttore artistico Mite Balduzzi. È stato un Genfest costruito insieme da tante squadre in sinergia. Non mancavano la sera dei momenti di svago e di allegria, in quello che, dentro Budapest, era diventato un po’ il villaggio degli attori».
Ricordi un momento particolare di quei giorni?
«Mi sono emozionato, al punto di piangere, durante un incontro con il regista e tutti noi, perché in quei giorni, un anno prima, era morto mio nonno e, parlando agli altri di me, l’avevo ricordato. È stato un momento fondamentale perché sono tornato alle mie radici e questo mi ha dato forza per affrontare i giorni successivi. All’inizio gli altri pensavano che sarei crollato, forse perché sembravo troppo emotivo, invece il ricordo del nonno mi ha aiutato tantissimo. D’altronde il tema del Genfest era Let’s Bridge cioè “creare ponti,” e io l’avrei potuto fare anche tra le generazioni dei miei nonni e i miei genitori, che hanno vissuto per un mondo unito prima di me, e la mia storia personale. In quel momento mi sono sentito “ponte”, ecco, e ho dato un senso diverso a tutto il Genfest».
Un Genfest che ha segnato la nascita proprio di United World Project che tu, fra l’altro, hai annunciato…
«Lo ricordo come un momento che ha segnato un cambiamento, nella mia vita e in quella di tanti giovani, perché da lì in poi sono partiti vari progetti nel mondo con questa finalità. Ricordo che, tornati a casa, ci siamo attivati per raccontarlo, per fare qualcosa nel nostro territorio. E questo ha avuto continuità. Pensa che sette anni dopo, nel 2019, sono stato in Palestina con l’Associazione DanceLab Armonia tra i popoli a fare dei lavori bellissimi con i bambini palestinesi proprio sotto il brand di UWP. Alla luce di quello che stanno vivendo oggi questi bambini e ragazzi costretti in territorio di guerra, credo che un progetto del genere sia stato un dono immenso sia per loro sia per noi. Quanto mi piacerebbe tornarci! Attraverso questi progetti che si concretizzano nell’attualità, senti di vivere un’esperienza che va oltre te stesso e ti segna per il resto della vita. Io a Budapest ho vissuto questo».
È attuale UWP, vuol dire che secondo te la fraternità è attuale? La nominano tutti, ma poi….
«La fraternità è attuale, attualissima, ma devi capirla. Quella che UWP ha proposto 12 anni fa è quella che si basa sulla parola del Vangelo, e chi si appresta a parlarne e a viverla sa che ogni giorno dovrà imparare qualcosa. Io ho la fortuna di insegnare, di stare con i ragazzi delle scuole e vedo che se scegli la fraternità devi avere la flessibilità di capire chi hai di fronte per riuscire ad amare quella persona in maniera unica: è una parola forte “amare”, lo so, ma in fondo la fraternità è riuscire ad andare oltre alla misura ordinaria di amore. E vedo che per i ragazzi di oggi questa cosa è molto forte. I miei alunni sono anche l’unità di misura che mi dice quanto devo migliorare. C’è sempre da fare ordine all’interno dell’amore, ed è una cosa meravigliosa quando senti che più tu incidi nella vita di un ragazzo da insegnante, più quello stesso ragazzo incide in te come se tu ne fossi l’alunno».