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Migrare è umano: riflessioni sul film “Napoli New York”
Una riflessione sul tema dei migranti attraverso il film “Napoli New York”, ambientato nell’immediato dopoguerra, ma capace di parlare al presente.
Un film sulla memoria della grande emigrazione italiana in America, valido, dunque, per lavorare sull’empatia, sul mettersi nei panni di chi, oggi, viaggia verso di noi nella speranza di una vita degna.
Migrare è umano. Ce lo ricorda la Storia e ce lo rammenta il cinema: quando le condizioni per una vita degna sono negate, la vita stessa si sposta altrove. Anche l’Italia, Paese ora al sicuro nel cuore dell’Europa – ma tanto vicino all’Africa da avvertire ogni giorno il suo grido – è stata terra di grandi emigrazioni.
In questi giorni, a riavvolgere il nastro ci pensa un buon film dal titolo Napoli New York, di Gabriele Salvatores. Parla di una città ferita dalle bombe e dalla miseria. Di bambini senza famiglia che cercano qualcosa da mangiare durante la giornata.
Questa città è Napoli, bellissima e dolente, devastata dagli ordigni della Seconda guerra mondiale. Qui, Celestina e Carmine, senza nessuno che si prenda cura di loro, vagano per i vicoli poverissimi della città, esposti ai pericoli più grandi.
La guerra è appena finita e la prima, di 9 anni, già orfana dei genitori, ha perso sua zia tra le macerie e ha visto sua sorella partire per l’America, dopo aver venduto tutto. Per amore di un uomo e nella speranza di un futuro.
Insieme al secondo, che di anni ne ha dodici, rocambolescamente si ritrovano in un viaggio per mare verso l’America. Sono accolti, accompagnati, sostenuti, da altri italiani con umili vesti e valigie avvolte con lo spago: emigranti, volti come i loro, sospesi tra paura e speranza, privi di passato e incerti sul futuro. Tutti diretti verso quel “nuovo mondo” che era anche il titolo di un altro potente film sugli italiani emigrati in America, diretto da Emanuele Crialese, in quel caso all’inizio del Novecento. Dalla Sicilia.
Celestina e Carmine atterrano in una New York piena di connazionali emigrati: la “Little Italy” poco distante dallo spazio divenuto casa per altri trapiantati, sradicati dalla storia: gli afroamericani incrociati da Celestina nei suoi giorni più difficili, rimasta momentaneamente sola tra il caos indifferente, quando non ostile, della “grande mela”.
Una città capace di «non servire agli italiani», incastonata in un mondo in cui, al pari di oggi, le parole povero e straniero possono essere sinonimi. «Non sei straniero, sei povero: se sei ricco non sei straniero da nessuna parte», ascoltiamo in questo film tratto da un vecchio soggetto (mai realizzato) di Federico Fellini e Tullio Pinelli.
Un film con la grande storia al centro. Marmorea e indiscutibile, statuaria maestra, forse scomoda, ma inequivocabile e possente, con la sua capacità di silenziare le considerazioni miopi ed egoiste sul fenomeno migratorio. Di dare il via a riflessioni più compiute, complete, magnanime e umane su questo doloroso e gigantesco tema. Quella Storia capace di alimentare l’empatia verso chi oggi, come noi ieri, cerca pace, pane e dignità. Dove può.
Ci sono la fame e la guerra in Napoli New York. Quei mali che l’essere umano, tre quarti di secolo dopo, non ha ancora estirpato, eliminato dal suo vocabolario. C’è, in questa tenera commedia drammatica, l’umana fuga da questo folle e doppio male, sintetizzato da una frase di Celestina a bordo del transatlantico, quando l’accusano di viaggiare illegalmente: «Anche morire di fame è illegale», risponde riassumendo il perché del viaggio scomodo, obbligato, mesto, toccato a una quantità infinita di esseri umani nei secoli.
Una massa di diverse lingue, culture e colori delle pelli, il cui comun denominatore è stato quasi sempre la povertà. Qual è, in assenza di un antidoto risolutivo, viene da chiedersi vedendo questo film, il farmaco almeno lenitivo per la fame, la guerra e le migrazioni forzate? È lo sguardo attento sull’altro, la capacità di dire, guardando la vulnerabilità di Carmine e Celestina: «Hanno vissuto la guerra, saranno affamati». È quella capacità di prendersi cura di loro incarnata dal personaggio interpretato da Pier Francesco Favino, che anziché giudicare freddamente il loro viaggiare senza biglietto, li va a cercare dentro New York per costruirgli un futuro.
Una didascalia, alla fine di Napoli New York, ricorda i «19 milioni di italiani» emigrati negli Stati Uniti in meno di due secoli. Sono parole che rinfrescano la memoria e ci consentono di metterci più facilmente nei panni dell’altro, quando bussa alle nostre porte per chiedere aiuto.