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Poesia contro la guerra

 
21 Gennaio 2023   |   Siria, Film, Nezouh - Il buco nel cielo
 

Un film sulla guerra fatto di poesia: il potere dell’immaginazione e la forza interiore dei giovani (e delle donne) contro le atrocità del conflitto bellico. Un film siriano delicato e intenso, capace di affrontare temi dolorosi del nostro presente (anche quello dei rifugiati) senza mai essere cruento, adoperando con intelligenza la metafora, contrapponendo la bellezza dell’incontro e la potenza della fantasia al rumore e alla paura delle bombe.

Nella manciata di corde toccate dal bel film Nezouh – Il buco nel cielo (in sala, in Italia, dal 12 gennaio scorso) opera seconda della regista siriana Soudade Kaadan, ce ne sono un paio – centrali e intrecciate tra loro – che riguardano due temi dolorosi del nostro tempo (e della storia umana in generale). Sono quello della guerra e quello di chi è costretto a lasciare il proprio Paese d’origine perché lì la vita gli è divenuta impossibile.

Ambientato a Damasco, nella città dilaniata dalla guerra, il film, presentato a Venezia ’22 (sezione Orizzonti) e nel sempre interessante Medfilm Festival (dove ha vinto il Premio Amnesty International per i diritti umani) mostra un conflitto senza scene cruente o spargimenti di sangue, ma con un paesaggio costantemente distrutto e personaggi reclusi, sospesi, nella surreale condizione di essere prigionieri in casa propria.

La storia è quella di una famiglia con un padre (Motaz), una madre (Hala) e una figlia adolescente (Zeina), costretti a vivere in un palazzo della città semidistrutto dalle bombe. Intorno a loro tante macerie e pochissime persone, in uno spazio divenuto quasi metafisico. Sui muri sventrati della casa, il padre ha appeso fragili lenzuola, ostinandosi a ripetere che li si può ancora stare: «È la mia casa, la posso aggiustare cento volte», sostiene, mentre la moglie e la figlia capiscono per prime che l’unica condizione accettabile è quella di rifugiati. «Ma guardati intorno, è tutto rotto», risponde Hala al marito, riferendosi a quella casa divenuta (anche) il simbolo di una lacerante inconciliabilità tra radici e libertà, tra passato e futuro.

Dentro l’orrore della guerra, infatti, si inasprisce anche il dissidio tra l’arcaicità del marito, col suo sguardo rivolto alla tradizione, e quello di un femminile più capace di cogliere la verità e il nuovo. Quella guerra fatta di attesa, di paura e di qualche esplosione che talvolta coinvolge l’abitazione stessa dei protagonisti, provoca sofferenze comuni a interiorità diverse, toccando gli equilibri esistenziali di ognuno ed obbligandolo comunque a una perdita: della possibilità di rimanere, ma anche di progettare, di crescere, di cambiare, di porre in una sana relazione i sogni e le azioni.

Tutti entrano in contatto con la costrizione in Nezouh, ben compresa la piccola Zeina, la quale, affacciata alla finestra della vita, ha voglia di saltare giù: di entrarvi dentro con passione. Lo fa, prima ancora che col corpo, col salvifico potere della fantasia, inafferrabile e invincibile anche per la guerra. Immagina che al posto delle pietre accatastate intorno alla sua casa ci sia il mare e il suo pensiero dolce si traduce in immagini concrete che condiscono il film di un prezioso realismo magico, soprattutto dopo che una bomba ha provocato un buco nel soffitto della sua casa: quel foro diventa feritoia per i raggi di luce e le folate di brezza portatrici di vitalità e speranza.

Da quel cerchio sul mondo appare un «cielo pieno di stelle», le fa notare Amer: il vicino di casa, uno dei pochi rimasti, più o meno della stessa età di Zeina. Quelle stelle «le bombe non le possono toccare», la rassicura il ragazzo dopo averle calato una corda e averla invitata sul tetto a immaginare insieme la libertà e la vita. Da lassù, l’attesa e il dolore che consumano si trasformano in creatività e dialogo. Amer e Zeina assaporano insieme frutta fresca, saporita e succosa, insieme guardano, sopra un muro, attraverso il proiettore portato da Amer, le immagini del mare in movimento, simbolo di libertà e scoperta. Insieme fantasticano persino di pescare: quando il ragazzo, dopo aver saputo che Zeina vorrebbe, da grande, diventare una pescatrice, le recupera una canna da pesca in qualche casa abbandonata e le rovine diventano per loro, magicamente, acqua calma e piacevole. Dentro quello spazio segreto prende forma la piena relazione umana, interagiscono natura e poesia, incontro e condivisione, immaginazione e arte: strumenti di una bellezza che contrasta l’atrocità della guerra intorno. Quel tetto è l’anticamera della libertà, la palestra di una consapevolezza propedeutica al viaggio che Zeina e Hala inizieranno poco dopo, smarrendosi inizialmente in una città irriconoscibile e attraversando poi un tunnel (anche questo metaforico) che dovrebbe portarle verso quel mare sognato, dentro quel viaggio pieno di incognite e spesso di dolore che è la storia di tanta umanità contemporanea costretta a fuggire dalla propria terra.

La didascalia finale del film rende omaggio a tutti quelli che ne fanno parte: «Per coloro che abbiamo perso in guerra – leggiamo – per gli sfollati e per coloro che si sono persi in mare». Nezouh, che in arabo significa “spostamento di anime, acqua e persone” sa parlarci, mescolando agilmente drammatico e fiabesco, realistico e poetico, leggerezza e gravità, della forza nei giovani (l’amore di Zeina tenta di riavvicinare i propri genitori), di emancipazione femminile e dell’importanza del sogno, mostrando di continuo come una guerra ostacoli brutalmente le potenzialità e i primari bisogni dell’essere umano.

La sua storia intensamente semplice sa estendersi a ogni guerra e a ogni condizione di incertezza profonda; sa farci lavorare sull’empatia, sulla capacità di entrare nei panni di chi certe realtà durissime le vive, ed è un entrare necessario in quella relazione.


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