United World Project

Workshop

Accogliere, proteggere, integrare

Storie, popoli e migrazioni in America Latina. Dal Perù raccontano…

Intervista a Silvano Roggero a cura di Paolo Balduzzi

È una vera e propria fuga: quella del popolo venezuelano rappresenta la seconda più ampia migrazione di massa al mondo. Con l’inizio della crisi economica del 2014, infatti, circa 4 milioni di persone hanno lasciato il Paese sudamericano. Molti di loro si sono trasferiti in altri Paesi come la Colombia, il Perù, il Cile, l’Ecuador, il Brasile, l’Argentina e la Bolivia, fuggendo da una crisi politica ed economica che impedisce l’accesso ai mezzi fondamentali di sopravvivenza.

«Direi che la situazione è drammatica!»- racconta Silvano Roggero, nato in Venezuela da immigrati italiani- «In Perù sono arrivati e si sono fermati più di 800mila venezuelani. Il ritmo è diminuito rispetto ad alcuni mesi fa, quando il picco è stato anche di 5mila passaggi dall’Ecuador al Perù in un solo giorno!»

Silvano da tanti anni ha fatto della fraternità una ragione di vita e insieme a una famiglia di venezuelani arrivati in Perù e ad altre persone delle comunità del Movimento dei Focolari a Lima e Arequipa, ha iniziato un progetto di accompagnamento ai venezuelani che cercano di rifarsi una nuova vita in Perù. Insieme ai suoi collaboratori fanno parte attivamente del CIREMI (Comitato interreligioso per i rifugiati e i migranti) e collaborano con UNHCR e altre ONG, e alcune famiglie religiose come Scalabriniani, Gesuiti e Salesiani che gestiscono in Perù case-rifugio per i venezuelani.

Silvano, dal tuo quartier generale a Lima, cosa puoi dirci di questo fenomeno?

«Ormai non si parla di migrazioni, ma di persone che fuggono da una situazione molto complessa, e quando scappi da un posto l’unica cosa che fai è prendere le poche cose che hai e lanciarti in una nuova avventura. Pertanto, qui in Perù, arrivano tanti venezuelani con pochi vestiti, più che altro estivi, con qualcosa da mangiare e i soldi contati per il viaggio via terra, che dura una settimana. Per cui, se succede qualche inconveniente, il viaggio si interrompe!»

In Perù, proprio a Lima, la comunità si è attivata per un’esperienza positiva nell’accoglienza dei migranti. Puoi dirci qualcosa di più?

«Il nostro impegno è cominciato il 10 dicembre del 2017, quando è arrivata la prima famiglia venezuelana di nostra conoscenza, cui abbiamo consegnato alcune decine di euro per le primissime necessità. Da quel momento, ci sono state segnalate continuamente persone in arrivo dal Venezuela che ci hanno chiesto soprattutto una cosa: far sentire loro il calore della famiglia. Il nostro principale impegno negli anni è stato proprio questo: accogliere, accompagnare, stare vicino, aiutare nei bisogni più urgenti: alimenti, medicine, indumenti, documenti, trasporti, compresi piccoli aiuti economici, frutto della comunione dei beni di alcune comunità e/o donazioni di amici, parenti. In due anni, abbiamo sfiorato i 20.000 euro arrivati e distribuiti!!!

Con quante persone siete entrati in contatto?

«Si tratta di oltre 200 venezuelani concentrati soprattutto in due città: Lima ed Arequipa. Tra loro, due donne, una psicologa e un medico, si sono messe a disposizione per dare un aiuto anche professionale nell’accoglienza; si sono fatti workshop e conferenze su depressione, lontananza, comunicazione con i familiari, nostalgia, come combattere il freddo, che in certe zone qui è molto intenso… Fondamentale, è stata la comunione dei beni delle comunità dei focolari di Lima e Arequipa per quel che riguarda la voce indumenti: è stato commovente vedere come durante questi due anni sia arrivata e poi partita subito roba da vestire! Non poteva mancare un gruppo whatsapp, dove ci comunichiamo notizie di famiglia, ma soprattutto quelle riguardanti i documenti per regolarizzare la situazione legale del soggiorno, oppure per segnalare offerte di lavoro di cui veniamo a conoscenza, ma anche le necessità di medicine e alloggio.

Stiamo parlando di una prima accoglienza. Sul fronte dell’integrazione cosa potresti dirci?

«Non è facile. Ci sono stati e ci sono episodi di xenofobia reali, ampliati dai media di proposito. C’è da tener conto che il numero di venezuelani giunti in Perù è elevato. L’integrazione è difficile anche perché, in fondo, vivono con l’idea e il sogno di tornare al più presto in Venezuela, per cui i migranti si considerano di passaggio, e ciò non aiuta. Noi cerchiamo di favorire l’integrazione anche nelle attività di aggregazione; a volte bastano piccole cose che si rivelano fondamentali: preparare sempre cibi tipici venezuelani, accanto a quelli peruviani, la tavola infatti è sempre un’ottima occasione di integrazione; in una delle ultime volte i venezuelani hanno cantato canzoni peruviane e i peruviani canzoni venezuelane; se c’è una festa per i bambini, come l’ultima dedicata al Natale, i regali sono per tutti, indistintamente».

A livello di rapporti…

«L’impegno che abbiamo è anche quello di rendere coscienti i nostri colleghi, gli amici che stanno intorno alla comunità, che è bene accettare e accogliere questi fratelli più bisognosi. In genere le persone capiscono, soprattutto quando possono avere un contatto diretto con qualche venezuelano, per cui iniziano a collaborare, ad aiutarsi, a essere generosi, consigliarsi. È sempre la relazione ad abbattere il muro della paura, del pregiudizio e dell’indifferenza».

Quali sono invece le difficoltà?

«Una realtà difficile da accettare è lo sfruttamento nel mondo del lavoro. Per il fatto che si sa che il venezuelano ha estremo bisogno di soldi per sussistere, in genere è sottopagato o addirittura non pagato! Le situazioni abitative sono difficili: vivono stipati in una stanza o in piccoli appartamenti, con parenti/amici, ma anche con persone sconosciute. Siamo venuti a sapere anche di 14 persone conviventi in un solo ambiente! E magari qualcuno sul nudo pavimento senza un materassino sotto. A causa del numero di abitanti (circa 10 milioni!) e per il caotico traffico di Lima a volte per andare al lavoro hanno anche due o più ore di viaggio in andata e altrettante di ritorno. Insomma, non è una vita facile, hanno bisogno di casa e lavoro, cose che noi ancora non riusciamo a dare».

Quale è il primo obiettivo che si pongono?

«Vivono e lavorano per la loro sussistenza e soprattutto per racimolare un po’ di soldi da inviare ai familiari rimasti in Venezuela (in genere i nonni e i bambini, a volte le mogli). È commovente vedere che appena mettono insieme 10-20 euro corrono a fare un versamento! La cosa interessante che notiamo è il mutuo aiuto fra venezuelani che dimostra come l’essere per l’altro sia qualcosa di presente nel DNA di questo popolo, che per sua natura è davvero generoso, aperto, inclusivo».

Parlavi dell’importanza della relazione: puoi farci qualche esempio concreto?

«Vivere la fraternità significa questo: dare un posto prioritario al costruire rapporti, relazioni,  rafforzare comunità grazie alle quali poi si sprigionano creatività, idee, soluzioni. Non vogliamo fare assistenzialismo, non si tratta più di un “noi” e un “loro”, ma di un “noi inclusivo”, dove anche chi arriva qui da un altro Paese o da una situazione difficile ha un compito, un talento da giocarsi per gli altri.  La nostra medico e la psicologa ne sono un esempio. E poi, penso a A.G., un venezuelano che conosciamo da circa un anno e mezzo e che per la sua situazione di salute abbiamo aiutato economicamente in modo importante. A un certo punto, abbiamo capito che sarebbe stato un bene per lui tornare in patria, accanto ai suoi cari; il valore della famiglia lo avrebbe aiutato nel sostegno alle cure in modo decisivo. Ci siamo fidati a finanziare un viaggio costoso, ma l’abbiamo fatto confrontandoci, appunto, con i venezuelani che sono qui, coinvolgendoli in questa decisione, mettendo sul piatto  tutti gli elementi. E alla fine, questo ha attirato anche una certa “Provvidenza”, che ci ha permesso di sostenere le spese e oltre.

 

Penso, ancora, ad Axel, un giovane tenente, educato militarmente, che non aveva nemmeno i documenti: se l’avesse fermato la polizia sarebbero stati guai. Per lui era impensabile intraprendere il percorso per richiedere la cittadinanza, perché sarebbe stato come tradire la sua patria. Creare fraternità ha voluto dire entrare in quel suo sentire, in quel suo pensiero, senza forzare i tempi. È stata un’esperienza di accoglienza e di ascolto che non lo ha fatto sentire solo di fronte a questo dilemma, prendendo poi la decisione di portare avanti la pratica. Ecco l’importanza delle relazioni positive: nasce qualcosa di nuovo che porta a soluzioni insperate».


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