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“All’inclusione dobbiamo sostituire la parola partecipazione”. Parlando di disabilità con Beppe Porqueddu
Nel Giorno Internazionale della Disabilità, Beppe Porqueddu condivide la sua testimonianza ispiratrice su come ha trasformato il suo dolore in un motore di cambiamento sociale e culturale. Dopo un incidente che lo ha reso paraplegico nel 1970, la sua vita ha preso una piega radicale, diventando un punto di riferimento nel campo della riabilitazione e dell’accessibilità.
Per la giornata internazionale della disabilità – oggi, 3 dicembre – abbiamo raccolto la preziosa testimonianza di Beppe Porqueddu. Tutto partì dal 16 dicembre 1970, quando, per un grave incidente stradale, Beppe divenne paraplegico. Siamo partiti da quel momento, che segno l’inizio di un percorso fatto di impegno, esperienze e riflessioni acute e lucide sul tema. Beppe ha portato avanti la sua missione per molti anni, divenendo tecnologo della riabilitazione in un grande centro a Roma. È una persona estremamente competente in materia di disabilità.
Ti va di riavvolgere il nastro, Beppe, e riassumere la tua storia?
Quel 16 dicembre è stato un importante, inatteso, “dettaglio”. Mi trovo a terra dopo la collisione con un camion fermo sulla strada che percorrevo ogni mattina per andare scuola, in motorino, da Porto Torres a Sassari, in Sardegna. Mi sentivo morire e nella mente affiorarono due immagini, come due specchi che si affrontano: la vita fino ad allora e quella da quell’attimo in poi. Capii l’importanza di quel momento drammatico: dovevo dire un sì. Rispondere alla novità che mi aspettava. I due specchi si dissolsero, nacque la mia via fino ad oggi.
Però c’è stato un momento difficile, di abbattimento, quando all’università hai incontrato un’architettura ostile, se così posso dire.
Concluso il terzo anno di liceo classico, nel mio secondo di paraplegia, la vita armoniosa vissuta interiormente, nonostante il cambiamento della mia corporeità, impattò con la società. In particolare, all’università, si creò un contrasto tra la bellezza dentro di me e quella introvabile fuori. Ero contento di vivere, ma non trovavo elementi esterni che accogliessero la mia nuova condizione. L’avevo accettata, ma l’ambiente esterno no. Da qui un conato di vomito, un giorno, sotto le scale dell’università.
Di fronte a un’architettura che in uno dei tuoi tanti interventi in convegni, definisci “del non amore”.
Quell’architettura esprimeva una cultura, perché l’architettura è sempre cultura. Avvertivo che entrambe non mi avevano previsto.
Una presa di coscienza dolorosa
Di un dolore culturale: quel conato di vomito non nasceva dentro di me, da problematiche interiori di non accettazione. Ma da qualcosa di esterno, che dovevo rimuovere.
E da questa esperienza hai tratto frutto.
Dà lì il mio impegno verso i temi della disabilità, che non erano trattati come lo sono oggi. La parola stessa disabilità non esisteva. Eppure, grazie a quell’entroterra valoriale e spirituale, ho vissuto questo dramma come luminoso, anche se complesso.
In che senso?
Tra il ‘71 e il ‘77 continuavo a chiedermi: “perché sono felice coi guai che ho?”. Ero dentro un tunnel, ma luminosissimo. Mi sentivo totalmente dentro la disabilità, ma anche fuori dalla questa.
Possiamo dire che la luce veniva da dentro e il buio da fuori?
C’era qualcosa che si opponeva al mio progredire intimo, interiore. Alla mia realizzazione umana: era il dolore rimosso, non amato dalla cultura. Un non amore per il dolore e per le persone che lo vivevano. Se ci sono le barriere, anziché le facilitazioni, c’è un motivo! Non è casuale.
Quando hai visto l’incidente eri un giovane del movimento dei Focolari
Si, e la mia vicenda è sempre stata vissuta nell’unità. Mai come esperienza solitaria. Sempre nella grande famiglia dei Focolari e nell’entroterra valoriale che è il carisma dell’unità. Nell’idea del mondo unito e del mondo nuovo. In tutto questo si è inserito ciò che mi è accaduto. Presto, ho preso coscienza del dolore come fatto relazionale, sociale e culturale.
Torniamo alla parola “dettaglio” che usavi in apertura:
Nella grande famiglia del movimento dei focolari crescevano i giovani. A loro era stato affidato un patrimonio sociale, oltreché spirituale. Per questo l’incidente, per quanto importante, è stato un dettaglio, perché vivevo già un ideale grande. L’incidente e la disabilità si inserivano in questa grande visione: ciò che contava era l’idea del mondo unito e nuovo, con la nuova antropologia che avanzava, in un contesto in cui la disabilità era assunta, concepita, trascesa.
Grazie a Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari.
Chiara intuì che in questa mia storia c’era una novità. La vedeva chiaramente e diceva: “dobbiamo fare una nuova rivoluzione. Dare valore al dolore, ma non in senso pietistico”. Da lì ho capito che il dolore è una grande molla di cambiamento, di trasformazione, dell’evoluzione stessa.
Dunque, attraverso questo dettaglio, mediante la sofferenza per quel dolore culturale, hai iniziato a lavorare su ciò che definisci, in uno dei tuoi interventi presso convegni, “educazione percettiva dei progettisti”. Di cosa si tratta?
Incontrando persone con disabilità, mi accorgevo che non avevano avuto il percorso di riabilitazione che avevo sperimentato io, a Ginevra, in un centro specializzato, grazie a Chiara Lubich. Loro mi inviarono lì, dove ho acquisito molte competenze e mi è capitato, durante un viaggio a Lourdes, di incontrare una persona paraplegica che mi diceva di non essere per nulla autonoma. Aveva avuto un incidente 15 anni prima, quando era già madre di una bambina. A lei insegnai come andare a letto da sola, in carrozzina o in vasca da bagno. Capii ancora meglio la portata di un problema collettivo, sociale. Allora ho cominciato a preparare dispense informative per i paraplegici. Da qui nacque un libro pubblicato poi da “Città Nuova”: il primo manuale italiano di divulgazione sulla tetraplegia e paraplegia. “Io paraplegico, manuale pratico per tetraplegici e paraplegici”, edito anche in Spagna.
Un’altra tappa importante del cammino.
Dà lì vengo conosciuto e chiamato per parlare nei convegni e comincia la mia vita di sviluppo sociale. Inizio a far parte di equipe interdisciplinari per la formazione di architetti, geometri e ingegneri, perché già il problema delle barriere, o comunque dell’accessibilità, si faceva presente. Anche se questa parola, molto più evoluta e positiva, venne dopo.
Altri passaggi?
Ho incontrato una donna: un importantissimo architetto. Aveva scritto dei libri e mi coinvolse in un primo corso di formazione per architetti, geometri ingegneri del Piemonte. Nacque un grande sodalizio intellettuale e cominciai a capire che occorreva una formazione alla disabilità intesa come prospettiva culturale. Ma doveva dirigersi verso su due frontiere.
Quali?
Una più tecnico-culturale; l’altra più intima, interiore, psicologica e spirituale. Entrambe riguardanti il progettista. Per lavorare, appunto, su quel dolore rimosso dalla cultura. Bisognava ricreare la forma mentis dei progettisti, degli architetti già professionisti e delle nuove generazioni, con attenzione alla disabilità dai primi anni della facoltà di architettura. In una grande prospettiva creativa
Da lì, appunto, quella che hai chiamato “educazione percettiva”.
Sulla quale ho costruito progetti per le pubbliche amministrazioni di varie zone d’Italia. Soprattutto in Val d’Aosta, dove iniziai a prendermi cura, in maniera approfondita, dell’educazione del progettista. Un percorso collettivo, portato avanti con altri docenti per inventare un nuovo prototipo progettuale.
Tra i vari convegni a cui hai partecipato, ce n’è uno coordinato di recente, pensato soprattutto per i giovani, sul movimento fisico. Il titolo è “Acqua, movimento, salute”, nel quale è stato trattato il tema: “Siamo corpo per una sostenibilità relazionale”. Puoi descriverlo?
Il convegno è stato organizzato con Onda Blu, cooperativa del bellunese nata nel 1994. Dall’84, sono stato parte di quel territorio e ho partecipato alla creazione del Centro Studi Prisma, in particolare collaborando col caro amico Renzo Andrich, ingegnere e giovane del Movimento dei Focolari, come me. Anche lui, per vocazione, impegnato nel lavoro con la disabilità. Insieme abbiamo portato avanti un grande percorso culturale e umano.
Ce ne parli?
Abbiamo realizzato diversi progetti innovativi per l’educazione all’autonomia di persone con disabilità fisica. A Belluno, si è lavorato molto attraverso l’acquaticità. Onda Blu ha avuto bisogno della sensibilità del Centro Studi Prisma verso la disabilità, e nel convegno citato, dove ho fatto parte del gruppo scientifico e scritto la relazione introduttiva, abbiamo messo a fuoco un tema oggi prioritario per la salute umana: il movimento fisico.
Interessante.
Il tema della salute si inserisce nel quadro dell’espressività, della creatività, della fisicità e della socialità: pilastri fondativi della personalità umana e dell’approccio alla disabilità. Ma la salute si inserisce anche nel quadro della sostenibilità: non si può essere in salute con l’aria inquinata, e quindi la salute è sostenibile con la cura dell’ambiente, compreso quello architettonico. Ovviamente, anche la disabilità è integrata dentro questa visione olistica dell’uomo.
La tua riflessione mi fa venire in mente il concetto dell’ecologia integrale.
La salute è un fatto relazionale. Per questo nel convegno ho citato molti atleti paralimpici: è stato uno spettacolo, per me, una gioia infinita, osservare l’integrazione profonda, sempre di più negli anni, tra la loro menomazione e la loro vita piena. Quando avevo il conato di vomito davanti alle barriere, era perché quella architettura era insufficiente ad accogliermi. Oggi, nel vedere queste persone con disabilità così belle, risolte e felici, nonostante le loro amputazioni e menomazioni, siamo davanti a una novità antropologica: un punto di arrivo dopo un percorso di migliaia di anni.
Hai usato la parola integrazione, non inclusione. Come mai?
Perchè inclusione dice molto poco. Il verbo latino “claudere”, che genera le parole includere ed escludere, vuol dire chiudere dentro o chiudere fuori. A me piace essere in espansione. All’inclusione dobbiamo sostituire la parola partecipazione, con un significato enormemente politico. Una partecipazione piena, con pieni diritti e pieni doveri. È legittimo affrontare la questione in termini di diritti civili, ma il tema è molto più complesso. Non lo si può guardare solo dall’apartheid, ma dal concetto di unità, del “tutto tondo”. Non dobbiamo mirare a una società parcellizzata, ma a una visione unitaria. Il problema è ancora una volta nella cultura. Gesù parla del fratello e non del povero da aiutare. Di uguaglianza. Le parole fragilità, debolezza, limite, nei miei testi non le uso. Vedendomi in carrozzina, molti pensano che io sia una persona fragile. Non direi. Il 16 dicembre compio 54 anni di paraplegia. Molte persone, considerate fragili, si mostrano le più coraggiose e stabili, forti e resilienti.
Usi tantissimo, nei tuoi incontri, la parola architettura. Dici che “è arte se riarmonizza”, “cultura” e “scienza madre”. Definizioni che ribadiscono quanto l’architettura sia strumento umano fondamentale.
Porto avanti la questione dell’architettura urbanistica da decenni. Le persone vivono nelle città: luoghi comunicativi e relazionali, con un patrimonio sensoriale straordinario, da sviluppare e far sviluppare. Per questo l’architettura è scienza madre, perché costruisce le città. È importante che i docenti formino al meglio i giovani, i nuovi cervelli, che li educhino non alla cultura delle barriere, ma della visitabilità e dell’ospitalità. Non c’è la seconda senza la prima. È necessario dialogare coi giovani. A me piacerebbe farlo con quelli del Movimento, che lavorano per un mondo unito. L’ho fatto negli anni e mi piacerebbe ancor di più farlo oggi. Magari per realizzare, con gli studenti di urbanistica e architettura, progetti insieme. Per esempio, per la casa domotica che sto costruendo in Sardegna vicino al mare, all’interno di un’interessante esperienza ecologica.
La bellezza della relazione sana tra giovani e adulti
Il rischio è che si parli tra intellettuali senza coinvolgere i giovani. Quando invece questi devono trovare una sponda straordinaria in chi ha già esperienza: un pensiero formato sulla vita anche attraverso esperienze complesse. Per accogliere qualcuno dobbiamo conoscere i suoi strumenti, le sue modalità di approccio al reale, intendere l’architettura come armonia sociale. Ne parla anche Chiara Lubich.
Lei ti chiese di interagire ai giovani?
Con Chiara sono stati decenni di unità specialissima. È stata sempre aggiornata delle attività portate avanti. Abbiamo formato nuove categorie culturali. Questo è importantissimo per i giovani. Nel movimento dei Focolari abbiamo incontrato la ricchezza umana di vivere il dolore, socialmente, quello che definisco “dolore in comunione”. In questo senso abbiamo portato avanti con il movimento Umanità Nuova, il tema della partecipazione attiva per tutti.
Per saperne di più, sulla vita e sul pensiero di Beppe Porqueddù, vedi anche: