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Ascoltiamo l’infanzia: intervista a Riccardo Bosi
Riccardo Bosi è un pediatra esperto ed appassionato, ma è anche uno scrittore, un narratore della bellezza e della complessità del vivere. L’abbiamo incontrato e siamo partiti dalla genesi del suo ultimo lavoro.
È da poco uscito un suo libro dal titolo “Le mille e una infanzia, bambini, culture, migrazioni”, edito da Carocci. Un testo sui bambini, sulla loro importanza e delicatezza, ma anche su molto altro.
Un pediatra ha l’opportunità di prendersi cura di migliaia bambini per anni, e magari (come per me) di diventare il dottore di quelli vulnerabili e migranti. Così, avverte la necessità di “dare voce a quei bambini e alle loro storie”. La mia dedica è chiara: “A tutte le bambine e i bambini sbarcati troppo presto dal magico bastimento dell’infanzia: che la memoria di certe pagine dei loro diari di bordo – violate, strappate o semplicemente cadute nell’oblio – siano capaci di tenere sempre desta la nostra coscienza civile”.
Ma si parla anche di noi adulti, nel libro…
Ad un certo punto ci dimentichiamo di che cosa sia l’infanzia, tempo universale e molteplice, talvolta duro ma decisivo e trasformativo. Fatto di una trama sottile. “Della materia di cui son fatti i sogni” – come scrive Shakespeare nella Tempesta. Questo libro nasce anche per ricordarci quanto quei primi anni di vita siano fondamentali per la nostra vita adulta.
E la grande responsabilità degli adulti nei confronti del pianeta infanzia.
La parola pianeta apre la metafora della Terra, da tutelare con la stessa attenzione. Davanti al drammatico abisso scavato tra l’essere umano e la natura (ne Parla il Papa nella Laudato sì), la sopravvivenza del pianeta dipenderà dalla posizione che, come adulti saremo capaci di assumerci, dalla decisione di essere custodi dell’infanzia, con politiche concrete e lungimiranti.
Che approccio ha il tuo lavoro, al tema infanzia?
Esiste un immenso corpus scientifico sull’età evolutiva, ma ho pensato che una novità potesse stare nell’individuare alcuni “sguardi” con cui osservare l’infanzia.
Per esempio?
Pensare ai bambini come a un popolo in viaggio verso le terre della vita adulta; come creativi e geniali, non “mancanti” di qualcosa. Non piccoli da imbottire di insegnamenti e norme, ma da valorizzare e rispettare nella loro unicità. Bambini non solo oggetto di preziose attenzioni, coccole, ma soggetti, persone “già” intere, che ci chiedono rispetto e reclamano diritti spesso calpestati.
Vale per tutti…
Non solo per i Paesi più poveri, pensiamo ai (milioni di) bambini-soldato o al lavoro minorile, ma anche per il nostro occidente, le nostre città ormai invivibili, inquinate e non più a misura di bambino.
Qual è il tuo modo di ascoltare i bambini che incontri? Quanto è importante l’ascolto nel tuo lavoro?
All’università ci insegnano molto, e magari diventiamo anche bravi medici. Ma in quanto all’ascolto, a un approccio empatico e al sapersi calare nei panni di un genitore in ansia, abbiamo ancora molto da imparare.
Invece è importante!
Mettersi in profondo ascolto di un genitore straniero o migrante può essere decisivo proprio per fare bene il nostro lavoro. Una comunicazione allineata aggiunge uno strumento alle nostre valigette.
Un doppio ascolto…
Oltre, ovviamente, a quello dei bambini: peraltro un diritto previsto dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’ONU del 1989, che dice di rendere partecipe un bambino di ogni procedura medica.
Come lo hai imparato?
Non senza fatica, nei miei primi anni di lavoro con pazienti oncologici. Ho imparato che le parole contano, ma ancora di più gli sguardi, i silenzi. Parlare con i bambini e gli adulti, cambia la prospettiva.
Il titolo tocca il tema della favola.
Le fiabe sono “il respiro dei bambini”, la loro atmosfera. Da bambini vogliamo capire tutto, ci poniamo domande profonde e scomode: “Dove si va dopo che si muore?” Magari imbarazzanti: “Perché quel signore dalla grande pancia è incinto”?
Perché lo facciamo?
Perché siamo alla ricerca di senso. La funzione della fiaba è creare i primi elementi di quella saggezza che ha bisogno di molto tempo. Le fiabe sanno dispensare perle di sapienza e di senso in modo graduale e adeguato all’età. Intercettando il pensiero magico dei bambini, spiegano verità profonde e magari dolorose con parole semplici e senza spaventarli.
Col filtro del “C’era una volta…”
Lavorando in modalità atemporale, tengono a debita distanza la realtà. È come se prendessero per mano il bambino senza impedire che il linguaggio simbolico tocchi tutti gli elementi della sua personalità. Fiabe e gioco sono tra i punti cardinali dell’infanzia.
Nella fiaba irrompe però la vita reale: nel libro inserisci storie chiare e precise, anche se con nomi di fantasia. Come si relazionano con la parte più teorica?
Partire “dal caso particolare” può aiutare il lettore a capire l’importanza della parte teorica. Le storie ci aiutano a ricordare quanto “l’osservazione” rispettosa e non invadente nei primi anni di vita, e poi “l’ascolto” dei bambini negli anni successivi (quando sanno raccontarsi), siano gli strumenti migliori per capire un bambino.
Sono tutte storie vere.
Rigorosamente. Raccontate dai genitori, raccolte in ambulatorio, vissute drammaticamente in un corridoio umanitario. Alcune buffe e spiazzanti, altre, veri “documenti”. Penso al contesto migratorio: con colleghi di varie discipline siamo stati testimoni di vicende, ferite e traumi che un giorno saranno forse sui libri di storia. Oggi quelle vite sono corpi feriti, hanno disturbi post-traumatici da stress, esiti di violenza assistita o tortura.
Le storie “raccolte sul campo” rafforzano la teoria.
Nel testo, di per sé scientifico, ho inserito passaggi narrativi e storie dure, leggere, uniche, per ricordare e “dare voce ai bambini”. «Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi se ne ricordano», come scrisse Antoine de Saint-Exupéry nella dedica del suo Il piccolo principe.
Torniamo al rapporto adulti bambini…
Se questo libro servisse a rinfrescarci la memoria al riguardo, avrebbe già svolto il suo compito. Inoltre, le storie erano necessarie per una fedeltà alle radici lontane di questo libro, nato dallo scambio di storie pediatriche con l’amica attrice Stefania Bogo, che ne sceneggiò una trasposizione scenica come esperimento di teatro civile: “L’isola dei bambini”.
Nell’introduzione leggiamo che questo libro ci dà la possibilità di immergerci nelle storie di vita e di crescita dei “figli degli altri”, nati ai margini della società o dall’altra parte del mediterraneo. Chi sono davvero questi figli?
Sono quelli che abitano le nostre città, grazie al crossover culturale generato dal fenomeno migratorio. Bambini di mondi lontani s’incrociano nelle scuole, nei parchi, nelle nostre pediatrie. Alcuni sono arrivati in modo drammatico sui barconi, altri sono nati qua: le seconde generazioni. È un processo di métissage in cui entrano in gioco radici identitarie e memorie delle origini, trasmissione di conoscenze e stili educativi.
Parli anche del nostro tempo e del nostro mondo, inevitabilmente…
La costruzione di una società multiculturale è un processo fragile, senza una “presa in cura” diventa conflittuale, faticoso, violento. L’esperienza sul campo di un pediatra che lavora con i bambini migranti dice che ripartire dai bambini e permettere loro di crescere insieme – anche quelli venuti da un altrove – sarebbe il modo migliore per evitare conflitti e affrontare il futuro.
Fondamentale…
Ogni migrazione introduce una brusca rottura tra due universi, ma nel contempo apre alle infinite differenze nelle modalità di prendersi cura dei bambini: il mondo ci arriva direttamente in casa, una grande ricchezza a portata di mano, eppure stentiamo a riconoscerla.
Mi è piaciuta molto la definizione di bambini come viaggiatori….
Il viaggio è la metafora centrale, l’immagine guida del libro. I bambini compiono realmente il più complesso e molteplice dei viaggi: di scoperta di sé e del mondo, di esplorazione delle proprie potenzialità motorie e sensoriali, di formazione del carattere e della personalità. Cambiano, crescono, si evolvono. Perché ci ostiniamo a pensarli come una categoria, e talvolta quasi opposta a quella degli adulti?
Vero!
Quei viaggiatori esistono ancora: siamo noi. La sequenza degli stadi di sviluppo forma la biografia di un unico protagonista. Ormai ci è sempre più chiaro che ciò che accade al bambino oggi, avrà ripercussioni sulla sua vita adulta domani.
Nel libro parli di diversi metodi osservativi. Uno lo definisci “elogio dell’imperfezione bambina”. Mi spieghi meglio?
Fin da neonati abbiamo competenze incredibili. I bambini hanno una memoria prensile, sono scienziati perché perseguono il metodo di una problem solving sperimentale, ostinato e testardo. Rischiano, osano il nuovo come gli scienziati.
Eppure, non lo vediamo?
Non lo valorizziamo. «Sanno cantare, pedalare e ballare. Sono grandi artisti e scienziati, raffinati filosofi che s’interrogano sul senso profondo della vita…». Scrive Anna Granata, professoressa di Pedagogia interculturale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in un suo libro: “Da piccolo ero un genio” che conclude con questa affermazione: “poi qualcosa è cambiato. Un potente e impercettibile filtro selettivo entra in gioco con le prime esperienze in famiglia, a scuola, nello spazio pubblico. L’idea che ci siano forme di intelligenza da coltivare e altre no, inibisce molte qualità espressive e immaginative”. La creatività e l’unicità dei bambini vanno rispettate.
In che misura il tuo libro può essere politico?
Chiunque lavora con i bambini fa politica; la più alta e lungimirante, ma anche quella meno comoda e gratificante, perché magari darà i suoi frutti dopo decenni, ma preziosa perché riguarda la polis del futuro, composta e governata dai bambini di oggi.
Partire dai più fragili…
La tenuta di un ponte si calcola sul pilastro più debole; basta che ne crolli uno per far crollare tutto il ponte. Progettare una convivenza su persone vulnerabili, con disabilità, anziani o bambini, vuol dire mettere in sicurezza l’intera tenuta della società. Il libro è permeato da questa idea di “rimettere i bambini al centro delle nostre comunità”.