Workshop
Dalla Bosnia ad Haiti, per raccontare gli ultimi
Marta Carino è una giovane filmaker italiana che, telecamera alla mano, con il collega Luca Bonaventura, ha trovato la sua strada per costruire un mondo più unito: raccontare le storie degli ultimi, quelle dimenticate, che nessuno vuole guardare.
Ho raggiunto Marta Carino, 26 anni, filmaker, al telefono, in una tarda serata di dicembre.
Da una parte ci sono io, seduta davanti al computer, nella mia comoda, calda, casa accogliente di una città della provincia toscana; dall’altra c’è lei, a diversi gradi sotto zero, nel giardino dell’appartamento in cui è ospitata, nella città di Velika Kladusa, in Bosnia, a meno di 5 chilometri dal confine con la Croazia.
«Siamo arrivati con l’intenzione di indagare sullo spostamento della rotta balcanica dei migranti, che ha deviato qui in Bosnia,» mi spiega «faccio parte di un collettivo: siamo due filmaker, io e Luca Bonaventura, e poi, due giornalisti. Con Luca abbiamo studiato insieme all’università, la Rome University of Fine Arts».
In particolare, il loro progetto era quello di raccontare il lavoro di un’associazione di volontari indipendenti della zona, che si chiama SOS Team Kladusa, che assiste i migranti in viaggio, sopperendo ai loro bisogni essenziali.
«Qui, a Velika, fino a poco tempo fa, si erano accalcati tanti giovani migranti: algerini, afghani, pachistani, siriani, iracheni… vivevano in campi informali, il più famoso dei quali è chiamato, per motivi che puoi immaginare, “la palude”. Da qui, questi ragazzi provavano ad attraversare la foresta e a raggiungere il confine con la Croazia. Un viaggio che può durare anche otto giorni, e che qui chiamano “the Game”, il gioco, il cui scopo, nel buio e nel silenzio, è di evitare di farsi prendere e respingere dalla polizia croata ed entrare in Europa». Marta mi racconta che la violenza è tanta e si vede sulla pelle dei giovani che ritornano “sconfitti” dal gioco: ferite, segni di percosse, tumefazioni… È a questo punto che entrano in scena i volontari di SOS Team Kladusa, che offrono il primo soccorso, curano le loro ferite, li aiutano a rimettersi in forze, ascoltano.
«Quando siamo arrivati eravamo molto confusi,» confida Marta «ci è arrivata questa ondata di realtà gelida, disumana. Il punto di vista più forte ci è sembrato quello di questo piccolo gruppo di volontari che rimane qui e resiste, che lotta per questi migranti come supereroi ma che non vogliono essere considerati tali. L’associazione è stata fondata da Pixi, che è bosniaco, insieme alla sua fidanzata, Petra. Poi, c’è Den, tedesco, un ragazzo di 23 anni. Vivono questa realtà facendosi forza. Ci ha affascinato la loro complessità psicologica, la tenerezza, la forza, delle volte anche la violenza, la loro perseveranza».
Mentre Marta racconta, immagino il “gelo” di cui parla, le sensazioni dilatate, i sentimenti estremi che sta vivendo e, su tutto, sorge una domanda: perché?
«Con Luca, ci siamo resi conto che volevamo spenderci, spendere i nostri talenti, per fare un servizio che fosse in linea con i nostri ideali personali. Nel caso di Luca, non c’è una credenza religiosa, la sua scelta è quella di empatizzare con l’essere umano. Questo abbiamo in comune, l’essere umano: vogliamo raccontarlo, mettendoci al servizio di quelle realtà che non vengono mai raccontate. Dopo quella scelta, è arrivata la proposta di questo documentario in Bosnia e poi, Haiti… ».
Ecco, parliamo di Haiti. Perché Marta e Luca, dopo la Bosnia, andranno nell’isola caraibica che è anche il paese più povero delle Americhe.
«È stata una proposta di Fernando Muraca, regista più “anziano” di noi e di maggiore esperienza, che ci ha proposto di condividere la regia di un film documentario dedicato alla “Missione Belem” di Haiti, che servirà ad aiutarli a mettere in piedi una raccolta fondi (servono circa un milione di dollari) per realizzare un ospedale, recuperando spazi di oceano per l’isola» spiega Marta.
Nata nel 2000 in Brasile, nella città di San Paolo, l’esperienza della missione Belem è giunta ad Haiti nel 2010, dove lavora per salvare il popolo di una favela sorta sopra una discarica di spazzatura, dove i bambini muoiono a migliaia per le infezioni. Dopo soli 5 anni, i missionari sono riusciti a costruire, con milioni di tonnellate di macerie recuperate dal terremoto, le scuole di ogni ordine e grado.
«Abbiamo età, provenienza e esperienza diverse ma quello che ci accomuna è la passione per la regia e il desiderio di raccontare i più dimenticati, quelli ai confini del mondo, che non vede e non sente nessuno. Noi vogliamo raccontare il loro grido di dolore che va oltre ogni barriera umana. Nessuno vuole vedere questo terrore. Noi sì, e lo metteremo in mostra, nel film documentario: “Perché ti ho visto”».
I tre registi, giorno per giorno, momento per momento, racconteranno anche la loro esperienza via Instagram, per diventare “virali” e far partecipare più persone possibili a questa storia di resurrezione.
Se volete seguire le loro avventure, e il proseguo di questa storia su Instagram basta cliccare: “Perché ti ho visto”.