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“Ero un bambino soldato, oggi lavoro per la pace”

 
 
Foto di Paweł L._Pexels
Foto di Paweł L._Pexels

Arthur è stato un bambino soldato, “arruolato” contro il suo volere insieme a tanti altri coetanei. Oggi è un artigiano di pace, e si racconta così…

Lo chiameremo Arthur: che sia o meno il suo vero nome nessuno lo può sapere, ma di vero qui c’è la sua storia, fatta di violenza, di orrore, e di una rinascita nel segno della pace. Si può nascere in un Paese in guerra e diventare “artigiani” di pace.

Tutto comincia negli ’90 quando il suo Paese, nel cuore del Continente Africano, vive una guerra civile per il controllo delle miniere di diamanti. Si dice che la prima vittima di ogni guerra sia la verità, ma subito dopo ci sono loro, i bambini, bisognosi di cure, di affetto, di abbracci, e costretti invece, in una ignobile guerra, a impugnare le armi, e diventare, loro malgrado, degli assassini. Si calcola che siano stati circa 5000 i bambini rapiti dai ribelli in quel periodo, per rafforzare l’esercito e per riuscire a prendere il potere e conservarlo.

«In quegli anni si sono creati anche dei gruppi di ribelli per combattere contro l’esercito del governo» – racconta Arthur – «e un giorno un gruppo di uomini armati sono arrivati nel mio villaggio, sono entrati nella mia casa e mi hanno portato con loro, per aggiungermi all’esercito dei “bambini soldato”».

Quel giorno Arthur si ritrova insieme a tanti altri bambini come lui. Partono e vengono obbligati a camminare tutta la notte per raggiungere la loro base; «Durante questo viaggio uno dei bambini, stanco, chiede di riposare. Uno dei ribelli lo guarda e gli dice: “Ok, tu resti qua a riposare e noi andiamo” e senza esitare gli spara.

Arthur ha solo 6 anni quando viene catturato e comincia a imparare a vivere con i ribelli che saccheggiano e bruciano villaggi, massacrano gli abitanti, tagliando le mani ad adulti e bambini perché non abbiano le impronte digitali per votare.  «Siamo passati dall’essere bambini che avevano paura degli spari ad essere quelli che sparavano».

Molti bambini infatti vengono ingaggiati come soldati senza averne la consapevolezza, considerati tra i migliori per diversi motivi: non concepiscono il livello di gravità della situazione, sono piccoli, veloci e sono in grado di infilarsi in tombini, fori e mimetizzarsi all’occorrenza. Dietro una promessa o a una minaccia, sono fedelissimi. Anche Arthur, per cinque anni, vive in questo clima, dove i bambini vengono anche drogati per permettere loro di compiere atrocità.

«Durante i nostri spostamenti, le donne dei villaggi vicini erano obbligate a portarci del cibo. Un giorno, tra quelle donne, riconosco mia mamma, che per anni avevo creduto morta. Abbiamo dovuto far finta di essere indifferenti, di non gioire, quasi di non riconoscerci per salvarci, ma poi con uno stratagemma sono riuscito a fuggire con lei per tornare in città e cercare l’aiuto dell’esercito del governo che ci ha aiutati fino al termine della guerra».

 

Con la fine delle atrocità, rimane la difficoltà di raggiungere una vera pace, è ancora troppo alto il desiderio di vendetta nei confronti dei ribelli.

Ma sono anche in questo caso i bambini, i veri protagonisti del cambiamento; Arthur racconta l’impressione avuta un giorno, quando il Presidente del Paese chiede a una bambina alla quale avevano tagliato le mani: «Se tu vedessi le persone che ti hanno tagliato le mani, cosa faresti?” – La bambina risponde: “Io devo perdonare i ribelli perché se noi non perdoniamo, la guerra non finirà mai».

Queste parole vengono diffuse ovunque nel Paese: «Forse è grazie a persone come questa bambina che nel nostro Paese è finita la guerra» – continua Arthur, che inizia subito dopo ad andare a scuola, finalmente, e lì conosce i missionari saveriani che gli fanno conoscere anche un modo di vivere diverso, dove la fraternità è al centro. «Non crediate sia stato facile, o immediato, perché le ferite c’erano e ci sono ancora, ma sull’esempio di quella bambina ho provato a vivere come mi proponevano quei missionari, cercando di fare agli altri ciò che avrei voluto fosse fatto a me, e mi sono sentito cambiare dentro».

È un cambiamento che continua ancora oggi e che ha portato Arthur a studiare in Italia e a condividere la vita con persone di varie parti del mondo: «In mezzo a tante culture, ho cercato di accogliere le diversità con tutto il cuore. Ho capito che c’è un altro modo di vivere, senza paura».

Diventa naturale, per Arthur, lavorare nell’ambito della cittadinanza globale e seguire, per ora a distanza, dei progetti per le scuole in alcuni Paesi Africani; nell’ambito del progetto Living Peace International, Arthur è un ambasciatore di pace con un sogno nel cuore: «Vorrei tornare nel mio Paese e lavorare con il mio popolo, soprattutto con i bambini e giovani per formarli a vivere per la fratellanza tra tutti gli uomini».


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