Workshop
La Fundacion Mundo Mejor
COLOMBIA – Educazione e lavoro: due parole d’ordine per lo sviluppo integrale in un “barrio” di periferia
Steve è un ragazzone alto, dal volto buono, quello che si direbbe un “gigante buono”. Può sembrare un timido, ma quando apre bocca e comincia a raccontare della Fundacion Mundo Mejor, in realtà non si ferma più. Una storia che parte nel 1994, nella seconda città più popolosa della Colombia, Medellin.
«La nostra è una città sportiva, forse la più sportiva della Colombia» racconta Steve «sia perché molti dei campioni nazionali dello sport sono qui, e sia perché, forse di conseguenza, non esiste strada che non abbia bambini e ragazzi che corrono dietro a un pallone».
Medellin è anche una città ferita, simbolo del narcotraffico e delle sue disastrose conseguenze umane, sociali, economiche. Proprio in questa città, durante la sua recente visita, Papa Francesco ha parlato col cuore in mano alla Chiesa colombiana con un messaggio rivolto anche al resto del Continente e, naturalmente, all’Europa. All’interno di un lungo discorso, il Papa ha chiesto a tutti il coraggio di cambiare le cose: «Il rinnovamento non deve farci paura».
E di paura non ne hanno avuto gli iniziatori della “Fundacion Mundo Mejor”, che dal 1996 cerca di dare alla città un vero rinnovamento, che parte dalla cura dei più piccoli, dei più fragili.
«Tutto è cominciato costruendo piccole abitazioni per alloggiare un gruppo di sfollati che si trovava in centro città, offrendo assistenza medica, cibi e accoglienza. Era il 1994 ed era un piccolo gruppo di amici che animava questa azione che poi si è trasformata, diventando qualcosa di più».
Cosa è successo in concreto?
«Col tempo, ci siamo resi conto delle difficoltà che avevano i genitori a trovare lavoro per la mancanza di preparazione professionale e di opportunità; molti di loro finivano a svolgere lavori saltuari e poco remunerati. Gli stessi amici hanno creato spazi di formazione tecnica, affinché gli adulti potessero avere più possibilità lavorative. È in questo modo che sono nati i diversi programmi sociali di quella che oggi è una vera e propria fondazione».
Oggi com’è la situazione e di cosa vi occupate in concreto?
«La Fondazione porta avanti alcuni programmi per favorire l’inclusione sociale soprattutto dei più deboli attraverso l’educazione e il lavoro. Chi opera qui sceglie di mettere in primo piano il bene dell’altro, in un’ottica di vita che vuole prediligere la fraternità. L’educazione prescolare integrale, ad esempio, è portata avanti grazie a una metodologia che ha il suo fondamento nella dimensione relazionale, grazie alla quale si sviluppa uno spirito critico, riflessivo, che facilita l’apprendimento e la promozione di abitudini salutari per il bambino e per la comunità che è intorno».
Dare questo tipo di attenzione al bambino significa quindi darne anche alla sua famiglia, alla sua comunità?
«Sicuramente. Se un bambino impara qualcosa qui da noi, ma appena uscito da scuola trova un ambiente degradato che non supporta il nostro lavoro, si vanifica tutto. Lo sviluppo integrale richiede che all’educazione si affianchino progetti per l’inclusione sociale delle famiglie più povere ed emarginate, attraverso la formazione al lavoro, anche tecnico, creando vincoli con la comunità; in questo modo molte persone rientrano in una dinamica sociale attiva, portatrice di valori e abitudini sane per la vita di tutti».
Quanto è importante la creazione di “reti” a questo scopo?
«Penso sia fondamentale. Il lavoro che facciamo ha l’obiettivo di creare proprio una rete a livello sociale istituzionale, affinché l’attenzione verso le situazioni più disagiate sia a livello nutrizionale, pedagogico e psicosociale. Lavoriamo con i parroci dei vari quartieri, con le associazioni, con la municipalità; è una ricerca a volte faticosa, di armonia e di fraternità con varie realtà della città, ma solo così il lavoro che facciamo può avere radici solide e rendere stabile un cambiamento».