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La ricerca scientifica come arma contro le ingiustizie

 
25 Ottobre 2019   |   Italia, Ecologia,
 

Stefania Papa è docente di Ecologia presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”. Da oltre dieci anni, il suo lavoro di ricerca interessa le contaminazioni ambientali, in particolare quelle legate ai prodotti ortofrutticoli. Quando è scoppiato lo scandalo della crisi dei rifiuti, ha sentito di dover fare qualcosa di più. 

«In un’area geografica della regione Campania (Italia), particolarmente degradata dal punto di vista ambientale, si è raggiunto un livello d’inquinamento ambientale eterogeneo tale da definirla “Il Triangolo della morte” o “Terra dei fuochi”» mi racconta Stefania Papa, docente di ecologia presso l’Università della Campania, “Luigi Vanvitelli”.

«Io abito a Caserta, una zona molto vicina alla Terra dei Fuochi. Da oltre dieci anni studio le contaminazioni da metalli pesanti nei diversi comparti ambientali (acqua, aria, suolo) e la loro eventuale ricaduta nei prodotti ortofrutticoli, per questo, quando c’è stata la crisi dei rifiuti, sono stata coinvolta. Il Corpo Forestale dello Stato, mi ha chiesto di preparare una relazione che contenesse tutti i dati da me prodotti in modo da utilizzarli come base da cui partire per le indagini successive e creare così una mappatura iniziale. Alcuni pentiti (della camorra) avevano dato informazioni sui punti di sversamento, e poi, c’erano le denunce delle famiglie che avevano familiari che si erano ammalati di tumore…».

Stefania mi spiega che la definizione di “Triangolo della morte” risale all’agosto del 2004, e fu data da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica internazionale The Lancet Oncology (Elsevier) di Kathryn Senior e Alfredo Mazza (CNR) intitolato: Il “Triangolo della morte” italiano collegato alla crisi dei rifiuti. Oggi, in quel “triangolo”, un’area compresa tra i comuni di Acerra, Nola e Marigliano, abitano circa 550.000 persone e l’indice di mortalità per tumore al fegato sfiora il 38.4% per gli uomini e il 20.8% per le donne, dove la media nazionale è del 14%. L’incremento della mortalità è attribuito proprio all’inquinamento. La Terra dei Fuochi, invece, è una vasta area della provincia di Napoli compresa tra i comuni di Qualiano, Villaricca e Giugliano caratterizzata dallo sversamento illegale di rifiuti, anche tossici, dovuto alla camorra. In molti casi, i cumuli di rifiuti, illegalmente riversati nelle campagne, o ai margini delle strade, vengono incendiati dando luogo a roghi, i cui fumi diffondono sostanze tossiche nell’atmosfera e nelle terre circostanti, in particolare diossine. L’inquinamento da diossine dei terreni è veramente rischioso perché introduce sostanze tossiche nella catena alimentare degli animali da allevamento, e può raggiungere anche l’uomo.

«Questo scenario ha creato le basi perché insieme ad altri colleghi a livello nazionale ci confrontassimo per capire quale potesse essere il nostro contributo come scienziati e mettere insieme le nostre competenze in modo da provare a rispondere a questo “grido della terra”» racconta Stefania. Così, la sua storia si incrocia con quella di altre due colleghe, una genetista dell’Università di Genova, che da anni si reca periodicamente a Gaza, dove è di supporto alle equipe mediche, soprattutto pediatriche, ed un’altra dell’Università di Salerno, che studia le modificazioni biochimiche legate alle contaminazioni ambientali. «Spesso a Gaza, le donne scoprivano di portare in grembo bambini affetti da malformazioni solo mentre stavano partorendo. Lei come genetista si è offerta di dare aiuto e, con i suoi studi ha potuto trovare una correlazione diretta tra l’incidenza delle malformazioni e l’inquinamento da metalli legati alle armi da guerra presenti massicciamente sul territorio».

Tramite un collega, Stefania si mette in contatto con entrambe: «Ed è venuta fuori la possibilità di fare lo stesso studio in Campania, per la mia terra. Cioè: capire se c’è un legame tra le contaminazioni da metalli pesanti e l’alta percentuale di malformazioni».

Stefania, in particolare, studia le concentrazioni di metalli in biomarkers specifici: i capelli, utilizzati a questo scopo solo da una decina di anni.

«Per il momento è presto per definire un collegamento diretto perché, a differenza di Gaza, dove la correlazione tra guerra e malformazioni era diretta, qui, in questo territorio, gli input presenti non sono legati ad una sola categoria di inquinanti, gli hotspot sono diversi, per cui è difficile ascrivere l’effetto ad una sola causa. Servirebbe raccogliere un’enorme quantità di dati. Aumentando i casi studio, i dati dal punto di vista statistico diventerebbero più attendibili e si potrebbe probabilmente delineare una strada».

Intanto, i risultati sono stati oggetto di convegni nazionali ed internazionali, di pubblicazioni scientifiche.

«La prima tranche di ricerca l’abbiamo svolta in collaborazione con l’ospedale di Avellino… E poi, grazie alla Fondazione Diana abbiamo potuto comperare un frigo da laboratorio a -80 per conservare i campioni. Adesso, molti acquisti di materiale per le analisi li stiamo facendo di tasca nostra. Abbiamo deciso di utilizzare i nostri stipendi. Questo ci svincola da ingerenze che potrebbero esserci dall’esterno, ma rallenta moltissimo la ricerca. Per poter acquistare i reattivi chimici dobbiamo prima passare attraverso l’università, con una donazione liberale».

Ora, il loro studio si è esteso anche alla placenta e al cordone ombelicale.

«Come docente di ecologia dell’Università della Campania, sono sempre più consapevole che siamo “relazione” e che la relazione è la forma fondamentale della vita, ciò che le permette di rinnovarsi, di rigenerarsi in un continuo rapporto con l’altro, per questo mi sono sentita chiamata a rispondere personalmente. Sento forte che ogni ingiustizia, prima che una violazione della legge e una lesione dell’etica, è una negazione dell’Essere e del suo fondamento relazionale».


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