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L’Amazzonia ecuadoriana e il problema del gas flaring
In questo territorio pieno di ricchezze naturali e biodiversità, le aziende petrolifere bruciano gas naturali “di scarto” (in realtà utili), inquinando e causando gravi danni alla salute di chi vive nei dintorni.
Foreste, fiumi, lagune, cascate, migliaia di specie animali, piante medicinali, montagne sacre: tutto questo, e molto altro, è l’Amazzonia ecuadoriana. Ci vivono inoltre tante comunità indigene: popoli Quechua, Huaorani, Kickwa, Taromenani e molti altri, alcuni dei quali abitano proprio nel mezzo della foresta, a stretto contatto con la natura.
Da 50 anni a questa parte, però, questo territorio ha iniziato a cambiare volto: grandi parti di territorio sono state vendute a contadini, che hanno deforestato intere zone per farne campi da coltivare, e trarne legna da vendere. Un’altra scoperta, poi, ha determinato un vero e proprio shock ambientale: il ritrovamento di grossi giacimenti petroliferi proprio sotto a questi territori. L’oro nero ha cominciato ad essere estratto, e questa attività ha comportato la costruzione di centinaia di torce petrolifere. Queste “torri infuocate” bruciano i gas naturali che si trovano nel sottosuolo e che vengono sprigionati nel momento dell’estrazione del petrolio. Pur essendo gas potenzialmente utili (spesso si tratta di gas metano, usato nelle cucine), non vengono riutilizzati, poiché il processo sarebbe troppo costoso per l’azienda petrolifera: vengono dunque considerati come gas di scarto e bruciati, producendo enormi quantità di Co2. Questo è il processo che viene comunemente chiamato gas flaring (ossia “combustione di gas”): uno spreco di risorse naturali, oltre che una fonte di inquinamento per l’ambiente e per l’uomo. E c’è un dato ancora più allarmante: nel territorio dell’Amazzonia ecuadoriana sono presenti 447 torce, accese giorno e notte, 7 giorni su 7.
Per saperne di più abbiamo intervistato Txarli, un frate cappuccino che vive proprio nell’Amazzonia ecuadoriana, a Tiputini, e che lotta affinché il suo territorio, e le comunità che lo abitano, non vengano sfruttate e maltrattate, come invece sta avvenendo adesso.
“Le torce stanno bruciando gas naturale giorno e notte, da 50 anni. Oltre al danno ambientale, pensate allo spreco! Lo Stato paga moltissimo denaro per acquistare il gas che consumiamo nelle cucine delle nostre case, e allo stesso tempo qui stiamo bruciando 5 volte la quantità di gas di cui avremmo bisogno, e che potrebbe essere usato anche per i motori delle aziende, costituendo un guadagno anche per loro. Eliminando le torce, e sfruttando il gas naturale, lo Stato ci guadagnerebbe.”
E allora perché non vengono spente? Secondo Txarli il motivo principale è la corruzione. Si sono instaurati ormai dei rapporti di affari che non vogliono essere cambiati, e quindi non ci sono interessi a mettere in moto un cambiamento. Ma la situazione è davvero grave, se si considerano anche le terribili conseguenze salutari dell’inquinamento sulle persone che vivono lì: malattie respiratorie e tumorali, che hanno già iniziato a verificarsi in molti soggetti.
“L’unico mezzo che abbiamo per combattere questa situazione è la protesta. Abbiamo provato a seguire la via della giustizia, ma non è servito”. Txarli mi racconta che si sono presentate ad un processo giudiziario 9 ragazze, i cui genitori sono malati di tumore, per denunciare al tribunale della provincia di Sucumbíos la violazione dei diritti umani (salute e benessere della persona) e dei diritti della natura, a causa delle torce. Il giudice ha condannato questa violazione dei diritti e ha chiesto che in 18 mesi tutte le torce petrolifere vicine alla popolazione vengano eliminate. Finora non è stato fatto nulla; anzi, sono stati concessi dei permessi speciali alle compagnie petrolifere. La fiducia che queste persone riponevano nello Stato è ormai tradita, e a loro non resta un altro strumento se non la protesta: far sentire la propria voce. Per farlo, gli abitanti di questi territori sono supportati da altre associazioni ambientali e mediche, che li appoggiano nella loro battaglia. Ma non è facile.
Chiedo a Txarli quale sia il messaggio che vorrebbe trasmettere. Mi risponde così: “Questa terra che Dio ha benedetto è meravigliosa, sacra, è terra di bellezze mozzafiato, di biodiversità. Ma alcune persone stanno distruggendo questo patrimonio che appartiene a tutta l’umanità. Chi distrugge questa terra non vive qui, eppure sta distruggendo anche un pezzo della (anche) sua casa comune. Possiamo essere tutti partecipi della difesa dell’Amazzonia, anche dall’Europa o dall’America del Nord. Ognuno può fare qualcosa, iniziando col limitare la propria impronta di Co2 rilasciata nel pianeta. Noi ci siamo dati un obiettivo: piantare nuovi alberi e inquinare il 25% in meno ogni anno. Ma è un invito per tutti. Come fare? Cominciamo da piccole cose: usiamo i mezzi pubblici, mangiamo meno carne, ricicliamo.”
Per capire come essere meno inquinanti, bisogna capire quanto lo si è adesso. Per farlo, si possono utilizzare diverse piattaforme che aiutano proprio a misurare la “carbon footprint”, ossia l’impronta di Co2 che ognuno di noi emette nel pianeta. Misurandola, ci si rende conto di quanto si possa fare per iniziare a diminuirla. La consapevolezza è il primo passo verso il miglioramento.
“Siamo tutti inquinatori” – conclude Txarli – “ma dobbiamo lottare per il cambiamento: non essere più parte del problema, ma parte della soluzione.”