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“Le loro necessità erano sempre davanti ai nostri occhi…”
Di Chiara Catipon.
Un giovane cresciuto con la doppia nazionalità in un paese di confine decide di passare all’azione.
“Faccio avanti e indietro tra il Messico e gli Stati Uniti da quando ero piccolo”, spiega Noé Herrera, originario di Mexicali. Avendo la famiglia e la scuola negli Stati Uniti, insieme ad altri attraversava ogni giorno il confine con la California.
Così, ci dice, è cresciuto vedendo questi due paesi come vicini. Lui e i suoi amici di Mexicali erano in buoni rapporti con gli studenti degli Stati Uniti. Ciascuno imparava la lingua dell’altro, e facevano tutto seguendo quel senso di doppia nazionalità.
Tuttavia, una volta iniziati gli studi universitari, si rese conto di trovarsi in una posizione privilegiata, a cui pochi dei suoi connazionali avevano accesso. Oggi, questo ventiduenne sta coinvolgendo i suoi amici della California del Sud in una serie di attività di sensibilizzazione sulla difficile situazione degli immigrati che vivono nella sua città.
Poiché era una scena così quotidiana, Noé avrebbe potuto fare l’abitudine al crescente numero di coloro che elemosinano anche la più piccola moneta nelle strade vicino al valico di frontiera. Era impossibile ignorarli, perché – a piedi o in macchina – passava accanto a loro ogni mattina.
“C’erano sempre, sempre degli immigrati dal Messico meridionale o dall’America centrale”, afferma con enfasi, “e le loro necessità erano sempre davanti ai nostri occhi”.
Da dove cominciare?
Vedendo tutta quella sofferenza, si chiedeva cosa potesse fare. La sua prima idea fu quella di “farsi sentire“. Voleva che le persone fossero consapevoli che quella condizione è tutt’altro che normale. L’indifferenza di fronte a quella situazione era in forte contrasto con l’essenza della salda convinzione di Noé nel voler rispondere all’appello di Dio affinché gli uomini si trattassero a vicenda come fratelli e sorelle. Egli riconosce che, essendo cresciuto dentro il carisma dell’unità (N.d.R. Movimento dei Focolari), si sente chiamato a fare qualcosa per smantellare questo presunto “scontro tra le culture” che per lui non è mai esistito.
Così, radunò i suoi amici per organizzare una “Run4Unity”, una “gara di corsa per l’unità” che si tiene ogni anno a maggio in città strategiche di tutto il mondo, con l’obiettivo di promuovere la Regola d’oro: “Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te”. Nell’ultima che hanno organizzato, si potevano vedere i giovani correre lungo entrambi i lati del muro, dichiarando visivamente il loro desiderio che entrambe le parti acquistassero coscienza della loro comune umanità.
Tuttavia, Noè sentiva che lui e i suoi amici potevano fare di più. Cominciarono a preparare panini e a recarsi nei parchi vicini, dove vivevano molti immigrati. Alcuni di loro erano lì da anni. Erano stati deportati dagli Stati Uniti e semplicemente non avevano i soldi per tornare a casa loro. Così, erano abbandonati lì. Il gruppo dei giovani di Noé offriva loro cibo, bevande, scarpe, vestiti, tutto quello che riuscivano a raccogliere e dedicavano del tempo a parlare con loro.
Scoprendo la loro realtà
In questo modo, hanno potuto conoscere le varie realtà degli immigrati: le situazioni da cui fuggivano, le famiglie che si erano lasciate alle spalle, la ricerca di un modo per spedire soldi a casa in città dove semplicemente non c’era lavoro.
“Alcune città sono diventate così violente che la gente vuole soltanto andare in un posto sicuro”, ammette Noé con tristezza. Poi, quando arrivano alla frontiera, si rendono conto delle vuote promesse a cui avevano creduto. A quel punto, alcuni avevano già pagato con i risparmi di una vita il trasporto al di là del confine, solo per essere espulsi il giorno seguente.
Una situazione specifica continua, tuttora irrisolta. L’anno scorso, circa 5.000 persone provenienti dall’Honduras sono passate davanti alla casa di Noé quando il governo del loro paese è diventato una dittatura. Stanchi della violenza e per protestare contro la situazione politica, hanno lasciato il loro paese. Poiché alla frontiera era stata rifiutata la loro richiesta di asilo, sono rimasti a Mexicali. Noé ha visto che alcuni di quei giovani – non avendo molta scelta – si sono uniti ai signori della droga e alcune donne sono entrate nel giro della prostituzione.
Il passo successivo di Noé è stato aderire al movimento “Walk for Freedom” (Cammina per la libertà), nato per iniziativa di una giovane che lotta per porre fine alla tratta di esseri umani. Le donne che ne sono vittime sono chiamate le “schiave del XXI secolo”.
Questo è il quarto fine settimana che Noé va a visitare alcuni di questi giovani uomini e donne. Distribuiti in gruppi di otto persone, lui e altri amici si avvicinano a queste persone e chiedono se hanno intenzioni particolari da sottoporci. Le donne spesso chiedono preghiere per la madre, la figlia, ecc.
“Allora diciamo una preghiamo davanti a loro e consegniamo loro un piccolo dono”, spiega Noé. “Attraverso questo gesto, speriamo che sentano la nostra vicinanza e trovino un altro stile di vita”.
Ogni volta che vanno a fare questo servizio, la paura e le intimidazioni si fanno sentire. L’atmosfera è carica di tensione e ci sono rigidi protocolli di sicurezza da seguire. I ragazzi devono stare almeno a un metro e mezzo di distanza dalle donne, perché i loro protettori potrebbero fraintendere le loro intenzioni.
No all’indifferenza
Noé riassume tutto questo come “un’esperienza molto, molto forte. È il volto di Gesù sulla croce nella mia città. La mia amica dice che è come entrare ogni volta nella bocca del leone“.
Quando gli chiedo come la gestisce, risponde: “Sinceramente, a volte mi sento impotente. Quando mi ‘sento giù’, mi chiedo se sia davvero possibile fare qualcosa. Riusciremo mai a sradicare questo problema dell’immigrazione?”
“Poi però penso: sì, è possibile. Recentemente ho frequentato dei corsi e ho incontrato persone meravigliose. Ho imparato ad affrontare il problema facendo un passo alla volta: primo, individuare e acquisire consapevolezza del problema; secondo, istruire le persone sulle possibili soluzioni; terzo, agire e mettere in esecuzione il piano. Si tratta di un approccio generale e globale per combattere un grande problema come l’immigrazione”.
Così, il 18 ottobre scorso, 60-70 giovani tra i 12 e i 26 anni hanno organizzato un corteo. Erano per lo più messicani ma una decina veniva da Los Angeles e Tijuana. Una giornalista di una televisione locale ha intervistato Noé, gli ha chiesto la sua opinione sulla risposta del governo a questo problema della schiavitù, della tratta di esseri umani a Mexicali.
“Ho detto che vedo indifferenza da parte delle nostre autorità locali. Non è ritenuta neanche una priorità; è considerata una normalità, al pari dei molti casi che abbiamo là in Messico”.
Lo scopo del corteo era di sensibilizzare su questo problema e di mostrare che in tutto il mondo c’è la volontà di fermare questa situazione attraverso cambiamenti nella legge o creando più campi profughi, cercando tutte le soluzioni possibili.
Hanno marciato in silenzio per rappresentare il fatto che queste vittime della tratta di esseri umani non hanno voce. Tutti i giovani indossavano una maglietta nera con la scritta: “Abolire la schiavitù ad ogni passo”. Portavano cartelli e bandiere con diverse statistiche; per esempio: “Solo l’1% delle vittime della schiavitù sopravvive”, o “La schiavitù ogni anno genera un profitto di 150 miliardi di dollari”. Mentre distribuivano volantini e opuscoli per le strade più trafficate della città, chi passava di lì suonava il clacson per mostrare il proprio sostegno e filmava i manifestanti.
Un piccolo gruppo che produce un minuscolo segno nel quadro mondiale? Forse, è così. Eppure, se riescono a salvare anche una sola vita dalla tratta, non vale forse la pena adoperarsi al massimo?
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