Workshop
L’era della plastica
Di Javier Rubio.
Un progetto dell’Università di Vigo prevede l’uso dei droni per identificare che tipo di residui arriva alle coste, i punti dove più si concentra e in quale epoca dell’anno, differenziando tra la spazzatura dovuta all’attività umana in terra e quella che arriva dal mare.
Impressionanti e preoccupanti le immagini che ogni tanto ci mostrano le grandi masse di residui galleggianti nelle acque degli oceani. Si calcola che solo il Pacifico accumula 87 mila tonnellate di residui: bottiglie di plastica, giocattoli, pezzi di elettrodomestici, reti da pesca, milioni e milioni di piccoli frammenti che le correnti marine impastano in certe coordinate nautiche. E il Mediterraneo non si salva da questa «malattia» dell’era della plastica. I più cauti parlano di oltre 1.400 tonnellate di residui, altri invece (ecologisti soprattutto) puntano sulle 20 mila tonnellate, aggiungendo forse categorie diverse di spazzatura, e non solo quella galleggiante.
È di questi giorni la notizia sull’impegno globale per sradicare l’inquinamento da plastica, firmato a Bali (Indonesia) il 29 ottobre, con la partecipazione non solo di governi e ONG ecologiste, ma anche di grossi produttori di plastica. Tra i firmatari pure grosse aziende che utilizzano il 20% di tutti i contenitori di plastica prodotti in tutto il mondo (Danone, Gruppo H&M, L’Oréal, Mars Incorporated, PepsiCo, The Coca Cola Company, Unilever). Il direttore esecutivo dell’ambiente delle Nazioni Unite, Erik Solheim, ha affermato in quest’occasione che «la spazzatura marina è un esempio visibile e inquietante della crisi d’inquinamento da plastica», e incoraggia, quasi in supplica, a «lavorare contro questo problema globale».
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