Workshop
Mal di Congo
Pubblichiamo l’esperienza di Sara, una giovane logopedista italiana che, appena laureata, è partita per il Congo, dove ha lavorato in un centro specializzato per bambini sordi. Era andata per dare e invece…
Ho lavorato tutta un’estate per realizzare il mio sogno: trascorrere un mese in Congo, nella città di Boma, presso un centro specializzato per bambini sordi che si chiama “Istituto Florentia”. Mi sono laureata in logopedia all’università di Firenze, solo una settimana prima di partire.
Il centro, con le aule, gli ambulatori, i laboratori, era stato realizzato dal mio professore, attraverso l’associazione “La sordità non ha colore”, per migliorare le condizioni di vita dei bambini sordi di quelle zone. Lui mi aveva scoraggiato dall’andare: «Sara, tu vai, se te la senti…» mi aveva detto «ma io non posso assicurarti che riuscirai a fare qualcosa!».
Insomma, sono partita proprio perché ci volevo andare, a mie spese, contro le continue notizie dei tg che sconsigliavano di partire.
Sono atterrata con un’idea dell’Africa molto romantica: la savana, i piccoli villaggi… Non sono una sprovveduta, immaginavo anche la povertà. Ma Kinshasa, la capitale del Congo, è una metropoli, anzi una baraccopoli sconfinata, più simile ad una favela: case fatte di lamiere, container, legno. Una distesa enorme di tutto questo. Poi, ti appaiono le case dei ricchi, le super ville. Il contrasto. La temperatura che raggiunge i 42° e l’aria satura d’umidità.
Dopo pochi giorni nella capitale, ho raggiunto Boma a bordo di una jeep, accompagnata da Mons. Jean Basile, il responsabile dell’Istituto Florentia: dieci ore di viaggio per fare 300 chilometri! Con lui, c’eravamo sentiti molto spesso nei mesi precedenti, per programmare il viaggio e il lavoro che avrei svolto al centro.
A Boma, sono novantacinque i bambini e i ragazzi sordi. Solo il 3% di questi è nato sordo, gli altri lo sono diventati per semplici infiammazioni, timpani perforati e trascurati, meningiti, dosi sbagliate dei farmaci, come il chinino per la malaria, che lì danno in dosi assurde.
Il centro si trovava nella zona più povera di Boma. Io vivevo con le suore, in una casa pressoché normale. Avevo una stanza semplice, senza corrente e acqua. Il bagno era un buco, l’acqua che usavamo per lavarci era quella piovana. Ho ricevuto una bellissima accoglienza, mi hanno presentato tutti gli insegnanti e i responsabili del centro medicale: tutti congolesi, io ero l’unica mundele, l’unica bianca della città.
Vivendo con loro, ho scoperto che i novantacinque bimbi del centro seguivano un programma normale a scuola ma tutto nella lingua dei segni, senza alcun tentativo di integrarli, insegnando loro a parlare. Ho scoperto che i sordi, nella cultura locale, sono considerati “spazzatura”, roba da buttare via, come tutte le persone con disabilità, perché sono un peso per la famiglia, semplicemente perché non produttive. Per alcuni, sono ancora i figli del diavolo, per cui vanno emarginati.
Una parte del mio lavoro si svolgeva nell’ambulatorio dell’otorino. Lì, abbiamo fatto gli esami audiometrici, abbiamo messo le protesi inviateci dal mio professore e abbiamo fatto formazione a quei pochi genitori disponibili a superare lo stigma. Ogni giorno, nelle classi svolgevamo un’ora di articolazione e logocromia, ponendo l’attenzione sulla consapevolezza della voce. Siamo partiti con le vocali e, alla fine del mese, tutti i bambini riuscivano a pronunciare il loro nome e a dire: “Bonjour”, “Merci”, “Comment ça va?”. Sono stati la mia gioia!
Il lavoro terminava alle 14.30 e dopo ero libera. I primi giorni mi obbligavano a stare in convento, per la mia sicurezza, poi mi sono ribellata, così ho cominciato ad esplorare il quartiere.
Fuori dal centro, ho scoperto che le famiglie vivevano in capanne arrangiate e mangiavano a turni. Ogni giorno la mamma decideva a quali figli dare il cibo: oggi a due, domani agli altri, e così via. Ho imparato che i bimbi lì, muoiono come mosche, anche solo per un raffreddore non curato. E in quello scorrazzare, mi è cominciata a salire una rabbia per quello che vedevo, per l’ingiustizia, per quella mentalità passiva che delega tutto a Dio e fa dire: “se Dio vorrà stasera mangerò”, “se Dio vorrà il mio bambino sopravvivrà alla malattia”. In Congo, ho visto uno stato assente, qualsiasi diritto negato, ho dubitato del Dio in cui ho sempre creduto.
Dopo un mese, era giunto il tempo di ripartire. Così, ho prelevato tutti i soldi che avevo sul conto e ho comprato 50 chilogrammi di riso, 50 di fagioli, vari caschi di banane da distribuire a tutte le famiglie dei poveri del quartiere. Ad un certo punto, mentre terminavamo la distribuzione, ho sentito piangere fortissimo e ho trovato una mamma con il corpicino di una bambina in braccio, bianca tanto stava male, gli occhi ribaltati. La figlia era stata curata in ospedale ma le avevano dato dei farmaci che non avevano funzionato. Non avendo più soldi per altri medicinali, era tornata a casa, ad aspettare che la bambina le spirasse tra le braccia. Non c’ho visto più! L’ho presa e l’ho portata in ospedale. Ma non avevo un soldo, non sapevo come fare per pagare… Ad un certo punto, trovo nella mia borsa una banconota da venti euro. Non sapevo se sarebbero bastati, speravo facessero almeno da garanzia. Alla fine, il totale delle cure mi è costato precisamente 19 euro e cinquanta centesimi. Per questa cifra, oggi Mercis è viva. Quando la sua mamma mi ha rincontrato, mi ha detto:«Vedi, ho pregato tanto perché tu arrivassi!». Che, magari, è anche vero. Dio si serve di noi.
È così che, in Congo, ho sperimentato anche un amore fortissimo, potentissimo, deflagrante, capace di renderti felice, come mai prima, grazie ai bambini.
Un pomeriggio, mentre rientravo da lavoro, faceva così caldo che stavo quasi per svenire. Per strada, mi si è avvicinata una bambina scalza, nuda, con una banana in mano. Me l’ha offerta, perché la mangiassi. Probabilmente, era il suo unico pasto del giorno, però l’ha donato a me. Mi sono sentita amata! Un amore travolgente, coinvolgente, che ti lascia il desiderio di riprovarlo subito…
Mama Eve, che lavora alla scuola dell’Istituto Florentia e ospita a casa cinque ragazzi sordi abbandonati, quando le ho raccontato quello che ho vissuto mi ha detto: «Vedi, quello che tu senti, è l’amore, è Dio, quello che tanto cercavi».
Dicono che l’Africa ti cambia, io dico che ti attraversa, ti sconvolge, ti distrugge e ti riempie d’amore.