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Ritrovare la libertà: Team Libertad assiste i richiedenti asilo all’aeroporto internazionale di Atlanta

 
 
Foto di Brett Sayles - Pexels
Foto di Brett Sayles – Pexels
Di Fer Mucchiut per Living City Magazine, edizione di gennaio-febbraio 2025

Nonostante il trauma subito, i rifugiati e i migranti trovano conforto nel sostegno di Team Libertad, un’organizzazione di volontari che fornisce loro strumenti e risorse per ricongiungersi con i propri cari e ricostruire le proprie vite.

“Tu non mi capisci”. Lasciano il segno le parole e il tono di voce di questo giovane egiziano, che mi guarda dritto negli occhi.  Parla un inglese stentato, ma abbastanza chiaro da farsi capire. In qualche modo, però, sa che anche in un inglese migliore non riuscirebbe a esprimere fino in fondo ciò che sta vivendo. E ha ragione. Non credo di poter capire.

È uno dei ventinove uomini appena arrivati all’aeroporto di Atlanta, scortati dagli agenti del Centro di detenzione Stewart (SDC), un carcere privato di media sicurezza a Lumpkin, in Georgia. Io sono qui da volontaria con l’associazione che assiste questi viaggiatori e li aiuta a raggiungere la loro destinazione.

Questi “rilasci” avvengono quotidianamente, cambia solo il numero di persone.

Uomini e donne da ogni parte del mondo attraversano il confine tra Messico e Stati Uniti nella speranza di una vita migliore. Alcuni non hanno idea del viaggio che li attende o di ciò che troveranno una volta arrivati; altri sono più consapevoli dei rischi che dovranno affrontare, ma decidono di partire comunque.

Molti arrivano già con l’intenzione di richiedere asilo e portano con sé le prove di persecuzioni e violenze. Altri, dopo essere stati detenuti per mesi e magari anche tagliati fuori dall’accesso alle informazioni e da ogni comunicazione con i loro cari, finiscono per presentare domanda di asilo senza capirne completamente le condizioni e le conseguenze. Semplicemente, accettano l’unica soluzione che viene loro offerta, anche se, una volta rilasciati, si rendono conto di cosa significhi: non hanno più i loro passaporti, e per rimanere “legalmente” negli Stati Uniti hanno bisogno di molto denaro e di qualcuno che li rappresenti legalmente.

E adesso? Nell’attesa che la loro richiesta venga esaminata, questi uomini hanno finalmente ricevuto la liberazione condizionale. Possono contattare familiari e amici, se ne hanno. Ripetono ciò che è stato detto loro al centro di detenzione: “Ho bisogno di un biglietto per partire domani dall’aeroporto di Atlanta.”

I più fortunati tra loro conoscono qualcuno che compra loro subito il biglietto. Altri hanno amici e parenti che desiderano disperatamente rivederli, ma che hanno bisogno di alcuni giorni per racimolare la somma necessaria.  Altri ancora provano a contattare chiunque conoscano negli Stati Uniti, anche cercando disperatamente vecchi amici su Facebook. Ma o è passato troppo tempo dall’ultima volta e non ricevono risposta, oppure i loro amici non possono aiutarli.

Poco importa. Gli agenti dell’SDC lasciano tutti all’aeroporto, sia chi ha il biglietto, sia chi non ce l’ha. Team Libertad, l’organizzazione di volontariato di cui faccio parte, è stata fondata nel 2022 per far fronte alla carenza di risorse e di assistenza disponibili per questi richiedenti asilo, una volta liberati e abbandonati qui.

Anche se questi rilasci quotidiani sono annunciati con meno di ventiquattr’ore di preavviso, lo staff e i volontari di Team Libertad trovano sempre il modo di essere presenti sul posto. I volontari portano con sé dei cartoncini in diverse lingue che spiegano chi sono, pronti ad aiutare ogni persona a risolvere le proprie difficoltà, ad arrivare alla propria destinazione o a trovare un alloggio temporaneo.

Il mio giovane amico egiziano scende dal furgone con aria emozionata, chiedendo “Sono libero?” ancor prima che io possa iniziare il discorso di benvenuto. Sorrido. “Sì, amico mio, sei libero!” Batte le mani e ride, dando il cinque a tutti. Mi dice che il suo cellulare è rotto. Lo rassicuro: possiamo prestare loro dei telefoni.

Distribuiamo pizze, acqua, caricabatterie per i cellulari, kit per l’igiene personale, zaini e lacci per le scarpe (perché il centro di detenzione ha preso i loro).

Tutti i volontari iniziano ad assistere qualcuno. Io aiuto un uomo della Mauritania, ma abbiamo difficoltà a comunicare. Google Translate non riconosce il suo francese e nessun altro sembra parlare la sua lingua. Telefono a un amico, sperando possa assistermi nella traduzione. Con il suo aiuto riusciamo a capirci un po’ meglio, ma mi rendo conto che non c’è solo una barriera linguistica: c’è una barriera di fiducia.

Ci raccontano delle urla che hanno dovuto subire nei centri di detenzione, della poca luce naturale e aria fresca a cui avevano accesso e della mancanza di dignità con cui sono stati trattati. Capisco la diffidenza del mio nuovo amico, e inizio a sentire una certa frustrazione per non essere in grado di aiutarlo come vorrei.

Mi accorgo che un uomo del Salvador ha l’aria smarrita, mentre tutti gli altri sono intenti a telefonare ad amici e parenti. Vado a parlargli, e mi dice che non può contattare la sua famiglia perché ha dimenticato la password del suo telefono. È una situazione che ho già visto: dopo così tanti mesi senza poter usare il cellulare, è facile dimenticarsene. Gli suggerisco di provare con una sua password abituale. Mi guarda confuso: “Sono stato lì dentro per ventuno mesi, sempre al chiuso, con tutte quelle grida… In questo momento non ricordo più nulla.”

Nel frattempo, il mio giovane amico egiziano è rimasto seduto accanto a noi, aspettando di parlarmi. Ha già un biglietto per il Tennessee, dove lo aspetta un amico, e il suo volo parte tra poche ore. È tutto pronto, ma lui sembra preoccupato.

Anche se non ho ancora finito con il mio amico della Mauritania, mi giro verso di lui, di nuovo pronta ad ascoltare. “Il mio telefono non funziona. Guarda. Rotto. Non ho un telefono, non ho soldi. Ho bisogno di un telefono”, mi dice. Cerco di spiegargli che non abbiamo cellulari nuovi da regalare, ma lui insiste. Provo a parlare lentamente, a ripetere, ma lui mi interrompe, con uno scatto di frustrazione: “Tu non mi capisci! Non parlo con la mia famiglia tanto tempo, non parlo, quattro mesi! Ho bisogno di un telefono! Loro gridavano, mi trattavano… da schifo. Sono stanco, sono molto stanco.” Aveva appena provato a chiamare la famiglia dal telefono in prestito, ma non aveva ricevuto risposta. Adesso stava per partire, e la persona che lo aspettava in Tennessee gli aveva già detto che, a parte quelli per il biglietto, non avrebbe potuto dargli altri soldi.

Ci siamo scambiati uno sguardo con gli occhi pieni di lacrime. “Hai ragione”, ho detto. “Non capisco quello che hai vissuto, e mi dispiace. Mi dispiace per tutto quello che hai dovuto affrontare in questi mesi”. Ci siamo guardati in silenzio per un attimo. Poi lui ha sorriso, ha annuito e si è asciugato le lacrime. L’ho fatto anch’io. Ci siamo scambiati una lunga stretta di mano e con lo sguardo ho provato a dirgli: “Grazie per avermi aiutato a capirti un po’ di più.”

Mentre alcuni volontari si avviano con un gruppo verso i controlli di sicurezza, arriva una chiamata al telefono che diamo in prestito. Rispondo e riconosco il nome: la telefonata è per il mio amico egiziano! Lo raggiungo di corsa. Lui scoppia a ridere e a piangere, inizia a parlare e a gesticolare. L’angoscia è passata e la sua gioia è incontenibile. Anch’io mi metto a ridere e a piangere, e spiego ai volontari l’importanza di quella chiamata, in modo che possano permettergli di restare al telefono fino al gate, dove dovrà restituire il cellulare in prestito. Ancora con il sorriso sulle labbra, ci saluta entusiasta dalle scale mobili. La sua disperazione mi ha permesso di uscire dal mio pragmatismo su ciò che si può o non si può fare, e di provare invece semplicemente a capirlo, anche se non potevo risolvere il suo problema. Gli sono grata per questo.

Non so se è riuscito ad arrivare in Tennessee e non so cosa gli sia accaduto dopo, ma la sua frustrazione e la sua gioia continuano ad accompagnarmi. Di certo non ho potuto fare abbastanza per lui, ma almeno ci siamo guardati negli occhi e abbiamo lasciato che quello sguardo ci cambiasse entrambi.

Foto di Matthew Turner_Pexels
Foto di Matthew Turner_Pexels
Fer Mucchiut è consacrata, fa parte dell’Opera di Maria e vive in un Focolare ad Atlanta. Lavora nella Pastorale giovanile di una parrocchia cattolica, e tramite questa realtà collabora con una rete di organizzazioni locali che offrono assistenza ai migranti. Team Libertad è uno dei progetti promossi da Inspiritus, organizzazione non profit che fornisce servizi per i rifugiati e i richiedenti asilo in Georgia, Tennessee e Alabama.
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