Workshop
Uno sguardo “diverso” sulla crisi ecuadoriana
Di Catalina Hinojosa
Il racconto della crisi in Ecuador dal punto di vista di chi l’ha vissuta aiutando i manifestanti.
Nel marzo 2019, il governo ecuadoriano ha firmato un accordo con il Fondo monetario internazionale per ricevere un prestito di 4.200 milioni di dollari.
Per ottenere una somma così alta, il paese avrebbe dovuto adottare diverse misure: ridurre il deficit fiscale, ridurre le spese, aumentare le entrate e fare riforme al Codice del Lavoro, per ridurre i costi di assunzione e licenziamento. Il 1° ottobre 2019 il presidente, Lenin Moreno, ha annunciato la revoca dei sussidi per i carburanti. Questa decisione ha causato uno sciopero nazionale convocato dall’Unione dei trasporti, come protesta contro il decreto presidenziale.
Due giorni dopo, le comunità e i popoli indigeni hanno annunciato la loro partecipazione allo sciopero nazionale e, poco a poco, altri settori e gruppi della società hanno deciso di prendere parte alle proteste. Persone provenienti da diverse parti del paese si sono traferite nelle città urbane e in particolare hanno marciato verso Quito, la capitale, per protestare.
Il 3 ottobre 2019, il disagio si è diffuso in tutto il paese e il governo ha ordinato alle forze militari e alla polizia di placare le proteste. Lo scontro tra la polizia e i manifestanti ha causato molti feriti e centinaia di arresti. A causa della violenza, il governo ha proclamato lo stato di emergenza. Tuttavia, dopo un accordo con il governo, secondo il quale il costo del biglietto dei trasporti pubblici sarebbe aumentato, l’Unione dei trasporti ha abbandonato lo sciopero nazionale. Questo significava che l’aumento del costo del carburante sarebbe passato agli utenti, e ha quindi generato una reazione da parte delle classi medie e inferiori basse.
D’altra parte, i popoli indigeni e i diversi sindacati hanno continuato le proteste e lo sciopero si è diffuso in altre città, bloccando le autostrade, confrontandosi con la politica e le forze militari. Il 7 ottobre, il presidente ha sospeso le attività del governo a Quito e ha trasferito la sede del governo a Guayaquil, al sud del Paese, per evitare i manifestanti che si erano assiepati davanti all’Assemblea Nazionale e al palazzo presidenziale.
I giorni seguenti, la gente ha continuato a manifestare e alcuni edifici pubblici sono stati distrutti, cosa che ha portato il governo ad annunciare il coprifuoco.
Attraverso tutte queste misure, il disagio generale è aumentato e la gente ha chiesto di tornare ad un clima sociale pacifico. Molte ONG e riviste indipendenti hanno mostrato la prospettiva dei manifestanti rispetto a quanto stava accadendo nel paese. Altre organizzazioni come le Nazioni Unite e la Conferenza Episcopale dell’Ecuador hanno promosso il dialogo tra i leader dei manifestanti e il governo. Il 14 ottobre i capi delle comunità indigene e il governo hanno concordato di abbandonare lo sciopero e di rinegoziare le misure economiche chieste dall’FMI, al fine di proteggere la popolazione vulnerabile e prestare attenzione alle zone rurali che richiedono la garanzia di un’agricoltura sostenibile.
Nonostante le difficoltà durante quei giorni di protesta, la società, attraverso cittadini, università, ONG e altri attori, ha sostenuto la popolazione indigena che si è recata a Quito per protestare. Molti gruppi di volontari hanno dato il loro tempo, denaro e aiuti per sostenere le persone e ricostruire gli spazi pubblici. In effetti, dopo la fine della protesta, molti volontari (studenti, lavoratori, familiari, polizia e cittadini) si sono riuniti per pulire gli spazi pubblici di Quito come un’azione di unità.
Le ferite sono ancora aperte e molte sfide dovranno essere affrontate dal governo e dai cittadini. Tuttavia, questa crisi ha mostrato un altro volto, il volto della speranza e dell’unità, di cui i giovani sono stati protagonisti, giovani che hanno messo in gioco la loro vita per gli altri e che hanno dato tutto cercando di costruire una nuova società.
A tal proposito, riportiamo quanto scritto da Mayumi Alta, una giovane donna indigena che aderisce all’organizzazione Epaz, una realtà ecuadoriana che promuove la pace come via per affrontare i problemi della violenza, della guerra e della mancanza di rispetto per gli altri. Crediamo sia un documento importante per far conoscere al mondo la situazione delle comunità indigene in Ecuador:
Il paese ha dimostrato malcontento popolare di fronte ad una serie di misure economiche che sono state elaborate dalle scrivanie di coloro che governano il paese, rappresentanti che hanno idealizzato l’applicabilità delle teorie economiche alla realtà nazionale.
La rivolta di ottobre, guidata dai popoli e dalle nazionalità dell’Ecuador, ci ha insegnato molto: un orgoglio eccezionale, frustrazioni miste a profonda tristezza, sentimenti che sorgono non solo a causa della situazione socio-politica che stiamo affrontando, ma anche a causa della violenza esercitata dal governo, che continua a chiamarci infiltrati, “zanganos”, vandali o terroristi.
Per diversi giorni i media nazionali hanno omesso la realtà dei manifestanti. Le forze di sicurezza hanno represso violentemente le persone che hanno giurato di proteggere e la situazione peggiorava con lo stato di emergenza e il coprifuoco.
Dal lato opposto allo scenario del terrore, la solidarietà di centinaia di persone era concentrata nelle università (UPS, PUCE, UCE e UASB) che erano luoghi di rifugio umanitario. Per 7 giorni i volontari e le istituzioni hanno fornito sicurezza agli adulti, ai giovani, ai bambini e agli anziani che facevano parte dei popoli e delle nazionalità indigene venuti a Quito per chiedere di essere ascoltati, senza le garanzie del governo di mantenere le promesse di dialogo.
Ogni giorno le persone si riversavano sulle strade, piene di convinzione e incertezza, desiderose che il conflitto finisse, un desiderio che svaniva quando arrivava la notte o quando l’umore calava per la stanchezza, le ferite, la fame o per la mancanza della propria famiglia che stava protestando a casa, in un’altra città.
Sono stati giorni difficili, migliaia di cittadini hanno aiutato come volontari nei rifugi, cucinando per centinaia di persone, servendo cibo, curando ferite, ricevendo donazioni o giocando con bambini spaventati dai rumori delle bombe a gas lacrimogeno che esplodevano a pochi metri di distanza.
I giovani attivisti, pieni di energia, hanno lavorato in diversi luoghi durante il giorno. Si cominciava a lavorare nei luoghi di accoglienza umanitaria e alla fine si puliva il luogo che era stato teatro del conflitto. Oggi ammiriamo, analizziamo e persino critichiamo la nostra partecipazione a quei giorni di protesta, personalmente sottolineo la speranza di una nuova generazione impegnata ad aiutare le persone in difficoltà, a combattere contro l’ingiustizia sociale, ma soprattutto gli atti concreti che sono stati immediati.
Alcuni pensano che il Paese si sia spaccato, altri credono che fosse già diviso, in entrambi i punti di vista, probabilmente c’è una verità, ma quello che dobbiamo fare ora è guarire le ferite aperte, affrontare la crisi d’identità, combattere l’ingiustizia sociale e imparare a rispettare le differenze. La cosa più importante è capire che la vita è la cosa più preziosa da proteggere, che tutti dobbiamo difendere l’onore di ogni individuo, la dignità di ogni popolo e il diritto di ogni cittadino ad esprimere e manifestare le proprie opinioni.