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VOCI | LIBANO: La fenice può ancora rinascere?
Sono tanti i conflitti armati ancora in corso nel mondo, innumerevoli i popoli della terra che stanno vivendo tragedie umanitarie. Oggi, l’Afghanistan è al centro dell’attenzione mediatica mondiale ma… non così altri Paesi. Non lo Yemen o il Myanmar, la Siria, la Nigeria, la Repubblica Democratica del Congo, il Venezuela, il Sud Sudan, la Somalia, la Repubblica Centro Africana, per citarne solo alcuni. Sul nostro sito questi paesi troveranno sempre spazio e attenzione. Ma con questo articolo, vorremmo fare di più: dar loro voce. Vogliamo dar voce alla loro fame di pace, diritti, giustizia, equità, uguaglianza… Cominciamo dal Libano e dal popolo libanese, da troppo tempo bloccato in una crisi che è politica, sociale, economica e che tragicamente sta costringendo “la meglio gioventù”, anche la più qualificata, a migrare, per cercare altrove la speranza. L’articolo che segue ci arriva dal Paese dei Cedri, chi scrive è una donna.
Settembre 2021: due anni ormai ci separano dalla rivoluzione del 17 ottobre 2019 che ha visto confluire libanesi di tutte le religioni in manifestazioni imponenti, per dire no alla classe politica che da più di 30 anni ha portato il Paese alla deriva, per denunciare la corruzione e il clientelismo che dilagavano in molte istituzioni rendendo lo stato, in diversi casi, inesistente.
La rivoluzione dell’ottobre 2019 è stata come il canto del cigno, un momento particolarmente significativo che poteva portare a un cambiamento di fondo, ma che in realtà non ha potuto recuperare il ritardo della presa di coscienza da parte del popolo di aver scelto uomini politici del tutto inadeguati che, nei loro numerosi mandati non si sono impegnati in nessun modo a realizzare le promesse fatte ai cittadini.
Una rivoluzione che ha sofferto anche della mancanza di leadership, dell’assenza di nuove figure che potessero offrire una visione per il futuro, prendere il potere e sostituire la classe politica corrotta.
In mezzo alla tempesta politica e alla crisi pandemica, il Libano ha dovuto vivere il dramma, non ultimo, dell’esplosione del 4 agosto 2020, che altro non è che il risultato di un Paese “non governato” e percio’ esposto a rischi di ogni tipo.
Ed oggi, purtroppo, ci troviamo davanti ad una situazione inedita; tutto ciò che sta accadendo in Libano è “senza precedenti”: svalutazione della lira libanese (20.000 L.L. contro un dollaro è il cambio attuale al mercato nero); controllo illegale del capitale che le banche esercitano a seguito del fallimento non dichiarato del Paese, carenza di elettricità, carburante, farmaci, attrezzature mediche e beni di prima necessità… E la vera tragedia è l’esodo dei giovani, delle famiglie che hanno i mezzi per lasciare il Paese in cerca di un minimo di dignità, proprio quelli che costituiscono “la promessa del domani”.
I libanesi passano ore in code interminabili, uno sfinimento quotidiano per pochi litri di benzina. La tensione sale tra le persone, e i conflitti diventano quasi inevitabili provocando episodi tristissimi come quello dell’esplosione di un serbatoio di benzina il 18 agosto nella regione di Akkar, al confine con la Siria, in cui hanno perso la vita più di 33 persone, senza contare i feriti.
Gli ospedali, le scuole e le università che hanno fatto la gloria del Libano ora rischiano di non poter più continuare ad offrire i propri servizi…
L’uomo sta morendo oggi in Libano, non a “fuoco lento”, nascostamente, ma sotto gli occhi di tutti, annientato da una calcolata premeditazione! Le decisioni politiche sono dettate dagli interessi dell’oligarchia regnante che da sola continua a godere dei servizi di base, ovvero elettricità, carburante, generi alimentari di prima necessità, mentre il 55% della popolazione è al di sotto della soglia minima di povertà. Questa stessa classe politica continua a ritardare la formazione del governo per presunti motivi di equilibrio confessionale, mentre la gente muore.
Secondo la Banca Mondiale, il Libano sta affrontando la peggiore crisi economica che il mondo abbia conosciuto dalla fine del XIX secolo.
Si susseguono manifestazioni in piccoli gruppi, tra malati di cancro che chiedono le loro cure e genitori dei martiri del 4 agosto che chiedono giustizia per i loro figli o i loro cari perduti….
Detto questo, sappiamo di non avere l’esclusiva della sofferenza, molti popoli soffrono più di noi, ma ciò che colpisce è questo susseguirsi di eventi e drammi che rischiano di farci credere che sul Libano sia scesa definitivamente la notte e che non dobbiamo più aspettare l’alba.
Eppure rischierei di essere ingiusta e peccherei di omissione se non testimoniassi l’esistenza di atti quotidiani di resilienza che si contano a decine se non a centinaia: come per esempio la decisione dell’Università San Giuseppe di Beirut (Università Privata dei Gesuiti tra le più importanti del Libano) di accettare i pagamenti in lire libanesi e sostenere con borse di studio i sempre più numerosi studenti in difficoltà.
Il Ministero dell’Istruzione si è impegnato a garantire l’energia necessaria al funzionamento delle scuole pubbliche attraverso l’acquisizione di pannelli fotovoltaici finanziati da organizzazioni internazionali.
Com’è noto l’aiuto strutturale promesso dalla comunità internazionale è condizionato dalla formazione del governo e dalla volontà di prendere in considerazione vere riforme delle istituzioni statali per debellare il male della corruzione.
Tanti, su piccola scala, lottano ogni giorno per aiutare le persone a procurarsi le medicine. Piccoli aiuti da parte della comunità internazionale, ma soprattutto da privati, si contano a migliaia ed è così che è nata l’idea della valigia umanitaria: alcune compagnie aeree permettono al passeggero che è diretto a Beirut, di portare una valigia in più, per trasportare prodotti indispensabili per il Libano.
I medicinali vengono raccolti in tutto il mondo e inviati dai tanti immigrati libanesi e da altri.
Ma, in realtà, qual è il valore di queste iniziative (soprattutto quelle piccole) di fronte al crollo generale del Paese? Saranno segni della Provvidenza? Saranno gesti di speranza o di resilienza? Ma che cos’è la speranza? Chi osa ancora parlare di speranza?
Lo lascio dire a Edmond Michelet, più volte ministro del generale de Gaulle, che ha conosciuto la deportazione a Dachau come combattente della resistenza ed ha vissuto il suo impegno umano e cristiano alla maniera dei santi, attingendo a questi brani scelti[1].
Ai suoi compagni che gli facevano la terribile domanda del “perché?”, lui, con i piedi nello “stesso fango, ma la testa in Cielo”, osava rispondere: “Abbi cura degli altri e troverai una via nella notte”.
La Provvidenza è sempre presente in mezzo ai momenti più bui dell’angoscia”.
E persino :
«Perseverare è resistere senza forzare l’ostacolo, è non fuggire durante la lotta, è restare lì senza mai accettare la disumanizzazione, è individuare l’ostacolo, anche se questo ostacolo si chiama male, alla luce della Croce del Salvatore. Possiamo chiedere questa perseveranza nella fede senza mai dubitare delle incredibili capacità di generosità e di amore sepolte in ogni uomo. ”
A distanza di 100 anni della nascita del Grand-Liban nel 1920, la cosiddetta “formula libanese” è fallita? Il Patto nazionale del 1943[2] oggi è diventato un mito? O siamo nelle doglie del parto di un nuovo Libano, dove il “comunitarismo” (inteso come politicizzazione delle appartenenze religiose) sarà superato e riconosceremo le nostre identità complementari e non “omicide”, capaci di costruire un Paese che rispecchi i valori comuni e uno spazio di fraternità possibile, quel “messaggio” che costituisce la vera identità di questa terra?
Di J.K.
Dopo 13 mesi di stallo, il presidente della Repubblica Michel Aoun (cristiano) e il premier incaricato Najib Mikati (sunnita) hanno annunciato che il Libano ha un nuovo governo. 24 ministri: 12 cristiani e 12 musulmani; una sola donna. A loro il compito di far risorgere la Fenice.
[1] Stralci tradotti dal libro di Benoit Rivière, Prier 15 jours avec Edmond et Marie Michelet, Editions Nouvelle Cité, 1999, p.11.
[2] “Il cosiddetto patto “nazionale” tra cristiani e musulmani, agli albori dell’indipendenza nel 1943, ha fatto da cornice a un’ideologia transcomunitaria che purtroppo non ha resistito ai venti di destabilizzazione degli anni 1975-1990. I cristiani rinunciarono alla protezione coloniale francese, mentre i musulmani, dal canto loro, abbandonarono ogni desiderio di unire il Libano con la Siria o qualsiasi stato unitario di carattere “arabo” volto a raggruppare le varie ex province arabe dell’Impero ottomano, condivise tra i francesi e gli inglesi. Il Libano si pone così la vocazione di essere una “terra” di dialogo islamo-cristiano, di “ponte” tra Oriente e Occidente”.